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Venerdì 9 Aprile 2021 10:04

Ecce Homo: il Caravaggio ritrovato a Madrid

“Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono intorno tutta la coorte. Spogliatolo, gli misero addosso 
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Poche sono ormai le notizie che riescono a suscitare la mia meraviglia e le mie emozioni e, devo confessarlo, una certa dose di “giovanile” entusiasmo; tra queste sono da annoverare quelle relative a nuove scoperte (o riscoperte) nel campo dell’arte e della scienza. Avere appreso (ieri mattina, appena sveglio e prima ancora di aver sorseggiato il primo caffè della giornata) che, a Madrid, era stato identificato come opera di uno dei nostri più grandi pittori di tutti i tempi un Ecce Homo finora attribuito ad un illustre minore “della cerchia di Jusepe de Ribera” (detto lo Spagnoletto), è stato senz’altro uno di quegli eventi che hanno la capacità di destare un’immediata e irresistibile curiosità nell’animo di un anziano “dilettante” (nel senso più autentico del termine: colui che prova diletto, piacere e godimento) dell’arte, quale io stesso ho l’impudenza e la vanagloria di considerarmi.

Ad operare per prima questa fantastica “scoperta”, annunciata da tutti gli organi d’informazione europei, e ad attribuirne la paternità a Caravaggio, pare sia stata l’italiana  storica dell’arte Maria Cristina Terzaghi, tra le massime esperte del pittore, la quale, dopo aver visionato il quadro nel sito internet della casa d’aste madrilena incaricata della vendita di esso, e dopo essere corsa a Madrid per un esame accurato sul campo, ha affermato che “il manto di porpora di cui viene rivestito il Cristo ha la stessa valenza compositiva del rosso della Salomé del Prado di Madrid”, aggiungendo anche che “la figura del Ponzio Pilato denota somiglianze con il San Pietro martire della Madonna del Rosario del Kunsthistorisches Museum di Vienna”. Dunque, la nostra studiosa non solo ha compiuto un’analisi approfondita dell’opera in questione, ma l’ha messa a confronto con altre due dipinti coevi (1605-1606) dello stesso autore, rilevandone notevoli analogie di carattere formale. Alla Terzaghi si sono affiancati, nel sostenere la paternità di Caravaggio, altri insigni studiosi (tra questi Vittorio Sgarbi); altri ancora, tuttavia, non hanno esitato ad esprimere dubbi e perplessità. In ogni caso, e in attesa di ulteriori esami, lo Stato spagnolo ha immediatamente sospeso la vendita all’asta del dipinto, ponendo anche il vincolo a qualsiasi suo trasferimento all’estero e dichiarandosi pronto ad esercitare il diritto di prelazione a vantaggio del più grande Museo statale della capitale spagnola: il Prado.

Alla luce di queste informazioni e sulla base di conoscenze personali acquisite tanto sui libri quanto nel corso di reiterate “visitazioni” di opere del grande pictor egregius Michelangelo Merisi da Caravaggio non solo nei musei e nelle chiese della Capitale, ma anche in molti altri siti dove sono conservate opere dello stesso autore (Napoli, Siracusa, Firenze, Milano, Vienna, Parigi, Madrid, Londra, Berlino, New York, La Valletta e, per quanto riguarda un quadro dallo stesso titolo, Genova), ho cercato di orientarmi nel mare magnum tempestoso e contraddittorio dei commenti suscitati dalla stupefacente attribuzione del misterioso dipinto madrileno.

Innanzitutto ho ritenuto necessario e preliminare, per qualsiasi personale valutazione, mettere a confronto il quadro madrileno con quello, avente il medesimo titolo (e finora considerato l’unico Ecce Homo dipinto da Caravaggio), conservato presso la Galleria civica di Palazzo Rosso di Genova, un dipinto da me osservato e ammirato nell’unica mia visita al museo della città ligure, nella lontana estate del 1994 (fui commissario di filosofia nell’esame di maturità presso il locale liceo Leonardo da Vinci). Ebbene, dal confronto tra i due dipinti, emergono notevoli differenze, che chiunque ha la possibilità di rilevare ictu oculi (con un semplice colpo d’occhio):



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

 

 

E’ fondamentale, quindi, dopo l’osservazione dei due dipinti, consultare la letteratura, partendo dalla biografia più accreditata e più recente sul pittore milanese (quella dell’australiano Peter Robb, M L’enigma Caravaggio) e dalla monografia iconografica curata dalla nostra Mina Gregori ed edita da Electa editrice, dal titolo Caravaggio). Ebbene, tanto Robb, quanto Gregori, sostengono la tesi tradizionale di un unico Ecce homo, identificandolo con quello conservato a Genova.

Ora, dopo aver bene osservato i due dipinti, e dopo averli soprattutto messi a confronto con le opere coeve del tragico periodo 1605-1606 (funestato dai gravissimi episodi del tentato omicidio del notaio Mariano Pasqualone e, un anno dopo, dall’omicidio realizzato ai danni del soldataccio di ventura Ranuccio Tomassoni, a causa del quale Caravaggio fu costretto a fuggire da Roma e fu condannato a morte in contumacia), opere coeve che sono autentici capolavori quali L’incoronazione di spine, La morte della Vergine, La Madonna dei palafrenieri, i due San Girolamo, i due San Francesco in meditazione, se ne deduce che il primo Ecce homo, quello di Madrid, è più in linea con quell’intonazione “mortuaria”, con quella tormentata riflessione ed aspra tensione verso l’estremo e fatale e angosciante “transito” nel nulla eterno, che caratterizzerà in misura grandiosa l’ultimo periodo di frenetica attività dell’artista. Nel quadro genovese, inoltre, si nota una sorta di “lontananza” tra il Pilato situato a destra della composizione (con quello sguardo enigmatico rivolto verso lo spettatore, elemento che non si ritrova in nessun altro quadro dello stesso periodo e che non può essere considerato tipico dell’autore) e gli altri due personaggi: un Cristo che non esprime sofferenza, bensì rassegnazione, e uno sgherro che, al contrario, sembra amorevolmente affascinato dall’appena flagellato Gesù, nel mentre gli appoggia delicatamente il manto color porpora sulle spalle. E’ chiaro che i due quadri non sono delle copie: troppe ne sono le dissimiglianze, sia sul piano formale che a livello contenutistico. Inoltre nessuna delle fonti più o meno coeve ha mai sostenuto l’esistenza di due Ecce homo eseguiti nello stesso breve periodo di tempo. E ancora, per quanto concerne il destino dell’opera, le medesime fonti (raccolte poi da Giovan Pietro Bellori, il grande storico dell’arte del ‘600, autore di Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni, del 1672, opera che ambiva ad essere la prosecuzione della celebre Vite ecc. del Vasari, di cento anni più antica) riferiscono che il committente di essa, cardinale Massimo Massimi, insoddisfatto della sua riuscita (la giudicava addirittura oscena e blasfema), la regalò ad un suo cugino, anche lui ecclesiastico e di nome Innocenzo Massimi, il quale, divenuto prima nunzio a Madrid e poi vescovo a Catania, “la portò con sé in Ispagna” e, sempre secondo Bellori (il quale appare molto informato a riguardo), nel 1672 l’Ecce homo si trovava ancora nella capitale spagnola, mentre a Messina ne era conservata una copia. Poiché i moderni storici dell’arte (Robb e Gregori in primis) non possono non fare riferimento, al riguardo, alle suddette fonti del ‘600, registrando così l’avvenuto trasferimento dell’opera in Spagna, sorge il problema di come giustificare il suo successivo ritorno in Italia, e segnatamente a Genova. Ed è qui che entra in ballo uno dei più grandi storici dell’arte di tutti i tempi, vale a dire Roberto Longhi (1890-1970), colui che ebbe il merito, con le sue opere e ricostruzioni, di aver disseppellito Caravaggio e i suoi capolavori da un inspiegabile oblio durato ben due secoli e mezzo; colui che mise in luce l’influenza della pittura caravaggesca sulla pittura barocca del ‘600; colui che organizzò la prima grande mostra su Caravaggio e i caravaggeschi, a Milano, nel 1951; colui, infine, che si assunse il compito e la responsabilità di attribuire a Caravaggio la paternità dell’Ecce homo conservato a Genova, prima a Palazzo Bianco e, successivamente e attualmente, a Palazzo Rosso. Orbene, fino al 1954, l’opera genovese era inventariata, nel catalogo di Palazzo Bianco, come una copia, da un originale del maestro, eseguita da un allievo del Caravaggio, cioè Lionello Spada, e di provenienza incerta. Fu Longhi, nel 1951, con un articolo sulla rivista Paragone, dal quale fu estrapolato un estratto (ne riportiamo la copertina qui sotto) diffuso a ridosso della grande mostra milanese, a sostenere con determinazione che l’opera in questione andasse attribuita al maestro, e non all’allievo Lionello Spada.

 


Ora, però, Longhi non poteva ignorare le fonti seicentesche, quelle fonti cioè che ponevano l’ubicazione dell’Ecce homo in Spagna. Come era possibile che un quadro del Caravaggio, dall’Italia finito all’estero, poteva, a notevole distanza di tempo, essere ritornato in Italia? Sarebbe stato l’unico caso; molte opere caravaggesche, infatti, sono finiti in diversi paesi lontani dall’Italia: Francia, Spagna, Malta, Gran Bretagna, Austria, Stati Uniti, Germania, Russia; alcuni sono stati distrutti sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale (Berlino); mai nessuno ha avuto la fortuna (per noi italiani) di un ritorno in patria. Perché, dunque, quell’unico caso dell’Ecce homo? Longhi, in quel famoso articolo, fornisce una risposta alquanto singolare e bizzarra: secondo lui, l’espressione di Bellori “fu portato in Ispagna”, in base alla logica dell’estensione geografica non fu portato in realtà in Spagna, ma in Sicilia, che in quel periodo era sotto il dominio spagnolo.

Perché singolare questa risposta? Ma perché non esiste alcun precedente in materia: gli italiani colti del ‘600, Bellori compreso, sapevano benissimo distinguere tra la Spagna e i suoi possedimenti italiani, e nessuno (a meno che non volesse fare la figura dell’ignorante) avrebbe mai sostenuto che una certa cosa, localizzata in Sicilia o a Napoli o nel ducato milanese, si trovasse in realtà “in Ispagna”. Fu, quindi, quella del Longhi, una forzatura? Ebbene, ahinoi, si! Lo sospettò, anzi, lo dichiarò apertamente il critico Corrado Maltese, in un suo saggio dal titolo Vero o falso in un’opera di pittura, del 1977. Maltese non solo contestò la forzatura “geografica” del Longhi”, ma, entrando anche nel merito del dipinto (analisi delle mani), ritenne che la figura del Pilato del quadro genovese non potesse, per alcun motivo, essere opera del Caravaggio. Tuttavia, nonostante le contestazioni del Maltese, la maggioranza degli storici dell’arte (tra questi anche il Robb, sebbene con qualche dubbio, e la Gregori) continuò a dar credito all’attribuzione fatta dal Longhi. In ogni caso, a prescindere dalla paternità del dipinto genovese, l’opera ritrovata a Madrid, secondo il mio modestissimo parere (il parere di un “dilettante”), nonostante il suo pessimo stato di conservazione, sembra risultare molto più in sintonia con le idee, e soprattutto con lo stato d’animo, del Caravaggio del 1605-1606: un artista che ha ormai raggiunto il culmine, sul piano espressivo, della sua visione dell’arte e del rapporto tra arte e società, tra arte e natura. Ho osservato, in un precedente articolo (Sulle tracce dell’assassino), che Caravaggio, con le sue opere, rovescia completamente e radicalmente la concezione classica della bellezza, quella concezione che, riscoperta dai grandi del ‘400 e del ‘500, sarà solo in parte scalfita dal barocco e poi, di nuovo, riportata in auge dal neo-classicismo illuministico: “la bellezza come immagine sensibile del bene” (bellissima definizione del Simposio platonico) e, di conseguenza, come forma, ordine, armonia, simmetria, proporzione, perfezione. Oppure, per usare la celebre definizione di Johann Joachim Winckelmann (il più grande storico dell’arte del ‘700 europeo), la bellezza intesa “quale nobile semplicità e serena grandezza”. Ebbene, niente di tutto ciò in Caravaggio; in lui, al contrario, la bellezza è immagine sensibile del male, del disordine, della deformità, del conflitto tra individuo e società, della mancata conciliazione tra uomo e natura. E ciò spiega anche la causa dell’eclisse dell’artista milanese.

Un’eclisse durata per ben 250 anni e testimoniata da un celebre libro di un altrettanto celebre autore: sto parlando del Viaggio in Italia, di Wolfgang Goethe, tedesco di Francoforte amante dell’Italia e delle sue bellezze artistiche. Goethe, che soggiornò in Italia per ben due anni (1786-1788), visitandola in lungo e in largo (con due lunghi soggiorni a Roma, e due meno lunghi a Napoli e in Sicilia) e che, a Roma, vide tutto ciò che era possibile vedere (chiese, fori, palazzi, ville, musei, collezioni private, acquedotti, terme, luoghi ameni, ecc.), registrando con teutonica precisione ed accuratezza opere e autori maggiori e minori, non cita mai, neanche per errore o per criticarlo, l’artista milanese. Non lo prende neanche in considerazione, pur non potendo (perché assolutamente impossibile, avendo egli fatto visita a tutti i siti e a tutte le collezioni che conservavano e conservano tuttora opere del Caravaggio) non essersi imbattuto nei suoi dipinti. Perché questa voluta sottovalutazione goethiana dell’artista? Perché, ripeto, Caravaggio rappresentava tutto il contrario di quell’ideale di bellezza classica le cui testimonianze Goethe, armato e guidato dalle amatissime concezioni winckelmanniane, era venuto a cercare in Italia, culla della civiltà classica e del Rinascimento.

Caravaggio e la sua opera (profondamente intrisa di naturalismo ed espressionismo) potevano essere riscoperti e ri-valorizzati soltanto nel ‘900, in un’epoca, cioè, di totale crisi e caduta dei valori della classicità; in un’epoca segnata dalla precarietà, dalla paura, dall’angoscia, dalla totale mancanza di armonia; in un secolo che, sul piano artistico, ha prodotto l’espressionismo di Edvard Munch (ideale discepolo del pictor egregius), la cui opera più nota è, appunto, L’urlo, quell’urlo lamentoso, angosciante e lancinante visibile in tante tele di Caravaggio (da Giuditta ed Oloferne a La morte della Vergine, dal Martirio di san Matteo alla Decollazione di Giovanni Battista).

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