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Lunedì 24 Maggio 2021 12:05

Grancio: mai più Raggi e M5S

“In cinque anni ho visto una città piena di speranza trasformarsi in una città disperata”, dice la consigliera capitolina, candidata alle primarie del centrosinistra per il PSI. La nostra intervista

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Incontro Cristina Grancio – consigliera capitolina del PSI e candidata alle primarie del centrosinistra – per parlare di Roma, di politica e di futuro della Capitale, davanti a un caffè, all’estrema periferia nord della città. Poco distante è già aperta campagna. Siamo vicini al GRA e al centro commerciale Porta di Roma, nel cuore dell’omonimo quartiere che gli è cresciuto attorno. È qui che lei vive, fisicamente e mentalmente lontanissima da quell’immagine “ZTL” che ha assunto negli ultimi anni il centrosinistra.

È sempre qui che è iniziato il suo impegno politico: “Beh, è passato qualche anno, ormai. Porta di Roma, all’epoca, non esisteva ancora – mi dice – ero nella zona di Serpentara e mi impegnai sul territorio, nelle lotte dei comitati di quartiere del Nuovo Salario e di Piazza dell’Ateneo Salesiano. Ben presto decidemmo di creare un coordinamento fra i vari piccoli comitati di quell’area, per avere più forza, più peso. E così, quando, qualche anno dopo, ci trovammo ad affrontare il rischio di un milione di metri cubi di nuovi palazzi, che il Comune e alcuni costruttori volevano realizzare in zona, Davide riuscì a fermare Golia e il progetto fu stoppato”.

Eletta nel 2016 in consiglio capitolino, con il Movimento 5 Stelle, Grancio, ancora prima che si muovesse la magistratura, è stata fra le prime persone a sollevare dubbi sul progetto per il previsto stadio della Roma a Tor di Valle, entrando così in rotta di collisione con la sindaca Virginia Raggi. Una vicenda che ha caratterizzato fortemente i suoi cinque anni in aula Giulio Cesare.

Ci può riassumere brevemente come andarono le cose sulla questione dello Stadio?
Partiamo col dire che l’opposizione allo stadio a Tor di Valle è stato uno dei punti centrali della campagna elettorale che ha portato alla vittoria di Virginia Raggi e del Movimento 5 Stelle. Accettare l’ipotesi di realizzarlo, era dunque già un tradimento dei cittadini che ci avevano dato fiducia.
Ho subito ritenuto doveroso mantenere una coerenza con quanto promesso agli elettori. In più, accanto a questo, ho cominciato a intuire che gli strumenti per portare avanti il progetto non erano sempre quelli della normale battaglia politica, come avrebbero poi dimostrato i successivi arresti di Marcello De Vito e Luca Lanzalone. La risposta della sindaca e del Movimento, a quel punto, è stata di un’imgiustificata ed abnorme aggressività. Quando hanno capito che la mia posizione restava ferma e coerente, sono stata emarginata e poi sospesa dal Movimento, al punto che molti colleghi ebbero persino imbarazzo a incrociare il mio sguardo. Il provvedimento fu decretato illegittimo, ma a quel punto la rottura era già avvenuta.

Come ha vissuto quella rottura col Movimento?
Quando, due mesi dopo la mia sospensione, è arrivato l’arresto ai domiciliari di Lanzalone – sempre per la vicenda dello stadio – pensavo che il Movimento riaprisse gli occhi e addirittura mi arrivasse qualche scusa. Non fu così. Anzi. Fu un momento politicamente e umanamente molto difficile per me. In più ho visto una grande opacità: le decisioni non si percepiva mai da chi partissero, né perché. Ma io penso che la mia vicenda personale sia emblematica di una rottura avvenuta, contemporaneamente, anche fra il Movimento e gran parte dei cittadini che avevano creduto in quel progetto, in quella novità politica.



Qualche mese fa è entrata nel Partito Socialista. Dalla novità politica del Movimento è dunque passata a uno dei più antichi fra i partiti italiani. Come mai questa svolta?
Ritengo che per guardare al futuro e fare politica onestamente e in modo efficace, occorra avere un forte faro ideale e ci sia anche bisogno di radici ben piantate nel passato. La sbandierata teoria del Movimento 5 Stelle “né di destra, né di sinistra”, ho potuto verificare sul campo che non funziona. Non può funzionare, perché si traduce in una politica priva di pensiero, senza strategia, senza visione, fatta solo di scelte improvvisate, contraddittorie e, spesso, opportunistiche.
Nel momento in cui si devono fare scelte importanti, invece – scelte che, per loro natura, sono spesso difficili – se non hai radici ideologiche salde, non riuscirai mai a mantenere la barra dritta, la coerenza, a fare gli interessi dei cittadini, ti preoccuperai solo del tuo tornaconto immediato.
Per questo ho scelto un partito con una sua storia antica e solida e una sua chiara ideologia. Il pensiero socialista è sempre stato idealmente un mio punto di riferimento. Oggi lo è anche in modo concreto ed esplicito. Tra l’altro è anche il pensiero ispiratore di gran parte delle costituzioni e legislazioni europee. L’approdo al Partito Socialista è, dunque, l’evoluzione inevitabile del mio percorso politico.

Umanamente, invece, chi è Cristina Grancio? Ci racconti brevemente la sua storia.
Sono una donna normale, coi problemi quotidiani di tutti. Romana, sposata. Sono una che crede alle cose che fa, che ama i rapporti umani con le persone. È un pregio, penso, anche se a volte in politica sembra un difetto. Altri difetti? Tra impegni pubblici e privati, a volte faccio fatica ad arrivare puntuale agli appuntamenti, lo ammetto. Professionalmente sono un architetto, anche se un architetto che non ama i costruttori quando si trasformano in meri speculatori. Un architetto che non riesce a non appassionarsi a quelle che sono le problematiche concrete e che, per questo, ha iniziato a interessarsi di politica.
Da qui nasce anche il mio impegno. Iniziato nei comitati di quartiere e proseguito partecipando alle elezioni per l’assemblea costituente del PD. Da quel partito mi sono allontanata quasi subito, quando, conoscendolo dall’interno, non mi è parso coerente con le premesse ideali che concorrevano alla sua nascita. Poi l’esperienza con il Movimento 5 Stelle, un progetto che appariva innovativo, a cui molti inizialmente abbiamo dato fiducia. E ora, finalmente, la mia entrata nel PSI.

Con il PSI lei sarà adesso candidata alle primarie di centrosinistra. Sarà una delle poche donne in lizza. Eppure, fino a non molto tempo fa, lei appariva perplessa rispetto all’ipotesi di candidarsi. Cosa le ha fatto cambiare idea?
Quando, su alcuni giornali, è apparso per la prima volta il mio nome, io non avevo alcun mandato dal mio partito. Sembrava solo che la mia partecipazione alle primarie fosse un favore da fare all’azionista di maggioranza della coalizione, cioè il PD, mettendo a disposizione la mia esperienza in consiglio capitolino e, contemporaneamente, fornendo la foglia di fico di un nome femminile. Dopo, invece, è stato fatto un percorso più profondo e più serio, insieme al PSI. Si è ritenuto che io fossi la giusta figura rappresentativa di un Partito Socialista rinnovato in tutti i suoi aspetti e capace di comunicare ai cittadini questa novità. A quel punto, ho ritenuto doveroso accettare la candidatura e rendermi disponibile.

 



Parlava poco fa della sua esperienza in consiglio capitolino. Cinque anni trascorsi in aula Giulio Cesare che città le hanno fatto conoscere?
Ho visto una città piena di speranza trasformarsi in una città disperata. Emotivamente è questo il vissuto. E, di fronte a tutto questo, ho percepito un’amministrazione che non esiterei a definire come “disumana”. Ho visto gente disperata dal punto lavorativo e di vita, penso alle questioni delle partecipate, a Multiservizi, a Roma Metropolitane, alle questioni legate alle utenze non domestiche di Ama, a Farmacap e a molte altre situazioni critiche. Ho vissuto la sofferenza di molti lavoratori, che venivano trattati solo come numeri da parte dell’amministrazione. Per questo la definisco “disumana”, cioè priva della più elementare solidarietà umana, prima ancora che politica. Sono aspetti che mi hanno davvero toccata. Persone con la spada di Damocle sulla testa e la sindaca che si rivela incapace di ascoltarle, anche quando l’aula si era espressa in favore di questi lavoratori, come nel caso di Farmacap. Anche per questo, in certi momenti, mi chiedo: Virginia Raggi è il sindaco di chi?

Quali sono, in base a questa sua esperienza, i problemi più urgenti che Roma deve assolutamente affrontare e risolvere?
Purtroppo sono rimasti gli stessi di cinque anni fa, visto che nulla è stato affrontato.
La questione mobilità, ad esempio è stata concepita solo coi monopattini e con le nuove ciclabili. Sono soluzioni che possono essere di aiuto, un buon punto di partenza, ma che non risolvono il problema e che incidono poco sulla fascia di cittadini più adulti, che costituiscono la vera criticità sul piano del traffico. Il problema va affrontato in modo più strutturale, con le metropolitane di nuova generazione – non certo come la Metro C, nata come metro leggera e divenuta pesantissima, ma solo per rispondere ad appetiti privati – e una rete capillare su ferro.
C’è poi la questione dell’emergenza abitativa. C’è quella dei rifiuti, da affrontare con un porta a porta spinto, un decentramento del servizio e una maggiore chiarezza di ruoli e competenze, che eviti guerre e rimpalli fra Comune e Regione. C’è quella del decoro, anche in questo caso da poter risolvere solo decentrando funzioni e competenze.
E, “last but not least” come dicono gli inglesi, serve una partecipazione strutturata e organica dei cittadini alla vita politica della città, che può funzionare anche come forma di contrasto alla corruzione. Questo potrebbe a volte aumentare i tempi delle scelte iniziali, ma poi, una volta trovata la sintesi, coinvolgere le persone riduce enormemente gli ostacoli successivi, che spesso bloccano ogni iniziativa e portano a un irrigidimento delle posizioni.
Si parla spesso di sburocratizzare, ma una sburocratizzazione senza il contrappeso della partecipazione attiva e il controllo dei cittadini, rischia di diventare solo un “facciamo come ci pare”.

Sta parlando molto di decentramento. Dunque i Municipi, a suo avviso, necessitano di più fondi e maggiore autonomia, come molti reclamano a gran voce?
Sicuramente sì ed è anche un nodo centrale. La città è troppo estesa e differenziata nei suoi territori. Centralmente non si riescono più a gestire i servizi, in modo particolare quelli di Ama, legati alla gestione dei rifiuti. Il decentramento è un’assoluta e urgente priorità, che aiuta anche un migliore controllo da parte dei cittadini, più incisivo, avvicinandoli alle istituzioni. La capacità dei cittadini di trovare subito l’approdo per la soluzione del problema, cioè il Municipio, è sicuramente un circuito che funziona molto meglio.

Si parlava prima di emergenza abitativa. Lei, tra l’altro, è un architetto. Come mai, a suo avviso, nessuna delle giunte che si sono succedute è mai riuscita davvero ad affrontare in modo positivo la questione?
I problemi sono di varia natura. Intanto vi sono due enti distinti che si occupano di case popolari a Roma, uno che risponde al Comune e l’altro alla Regione, e già questo è un problema. Ne parlavamo prima a proposito di rifiuti. Una situazione del genere crea rimpalli di competenze, ripicche reciproche, soprattutto quando i due enti hanno maggioranze politiche diverse. Ormai le istituzioni non fanno più le istituzioni e cioè non si sentono patrimonio di tutti, ma pensano solo a rispondere alla propria parte politica, anziché ai bisogni di tutti i cittadini. Quindi si fanno la guerra l’una contro l’altra.
Da architetto, posso anche dire che il grande patrimonio dell’edilizia residenziale pubblica non è mai stato adeguato al modificarsi della tipologia di famiglia. Oggi ci sono nuclei con un solo individuo o con due, che spesso vivono in case sovradimensionate, con metrature ampie, pensate per famiglie numerose, mettendo in diffcoltà altri nuclei familiari, quando, ottimizzando le metrature, si potrebbe risolvere il problema per più persone.
C’è anche una carenza di finanziamenti adeguati per le case popolari, un settore che, tra l’altro, se ben strutturato e adeguatamente finanziato, fungerebbe anche da calmiere per l’intero reparto immobiliare.
Infine, dalla seconda metà degli anni Ottanta, le cooperative sono subentrate, in maniera crescente, nei piani di zona di edilizia popolare, non riuscendo però ad equiparare le capacità che aveva l’ente pubblico di realizzare le necessarie infrastrutture per le nuove zone di ediliza popolare.
Ora addirittura si pensa di affidare al privato, attraverso l’housing sociale – cosa ben diversa dall’edilizia residenzale pubblica – l’emergenza abitativa, non comprendendo la differenza fra emergenza e disagio abitativo.
La cosa è ancora più grave, perché non si capisce che la casa popolare non è solo un contenitore ma è soprattutto un contenimento sociale, che può permettere di prevenire forme di devianza, di delinquenza, di criminalità. Per questo va gestito da chi ha una visione del bene pubblico, anziché un interesse privato.

 



Ritiene che i cinque anni passati in aula Giulio Cesare siano un valore di esperienza aggiunto, che le hanno permesso di toccare con mano i problemi concreti di Roma?
Certo, soprattutto rispetto al fatto di avere visto come i problemi teorici di una città si trasformino sempre in problemi umani. Il problema, ad esempio, di una fogna che non funziona, non riguarda semplicemente la fogna. Il vero nodo è come quella fogna rotta, finisca poi per incidere sulla vita quotidiana di tante persone, sulla loro salute, sulla loro economia. Per questo io credo che la politica vada fatta sui territori, guardando negli occhi i cittadini e non con mezzi virtuali, con videoconferenze, con i social, o altri sistemi tecnologici, che non potranno mai farti capire i veri problemi della gente. La sofferenza la vedi soltanto se sei vicino alle persone. E un politico che non vede la sofferenza, che non tocca la sofferenza, non ha senso che faccia il politico.

Una sofferenza che ora è stata accentuata dalla pandemia.
C’è stato un problema gravissimo legato al crollo di posti di lavoro, con la crisi d’interi settori. Sono stati colpiti settori strategici per le caratteristiche specifiche di Roma. Penso, ad esempio, al settore culturale e a quello turistico, che muovevano una grande fetta dell’economia romana e che la pandemia ha messo in ginocchio.
Ora, oltre a tamponare nell’immediato le sofferenze di tanti cittadini, bisogna provare a immaginare soluzioni nuove, anche di lungo periodo, che ridiano speranza. Bisogna immaginare nuove strade da percorrere, per evitare di deprimere interi pezzi di città.
Sulla questione del turismo, ad esempio, ho recentemente fatto due proposte di delibera. Una per la realizzazione di un polo culturale dedicato al restauro e all’archeologia, con la creazione di un centro di specializzazione di altissimo livello internazionale, che attragga a Roma specialisti e appassionati da tutto il mondo, ai fini di creare, attorno a questo settore, non solo un turismo di qualità, ma soprattuto una nuova occasione di sviluppo economico.
La seconda riguarda la realizzazione di un polo agroalimentare, sfruttando il fatto che Roma è il più grande comune agricolo d’Europa.
Ma anche altro potrebbe essere immaginato. Penso, ad esempio, al settore del wedding. Forse non tutti lo sanno, ma a Roma molti stranieri scelgono la nostra città come location per il proprio matrimonio e questa tipologia di turismo, negli ultimi anni, si è fortemente incrementata.
Occorre una struttura pubblica e degli strumenti che coordinino queste offerte di turismo, all’interno di una visione complessiva della città e della sua economia.
Oltre alle questioni economiche ci sono poi importanti questioni sociali. La pandemia ha portato alla solitudine e all’isolamento di intere fasce di popolazione. Penso agli anziani.
Ecco, la questione di Farmacap, di cui parlavamo prima, è un ulteriore danno per tanti anziani soli. Farmacap ha fornito a lungo agli anziani di Roma un sistema di monitoraggio, tramite un servizio medico che controllava costantemente le loro funzioni vitali. Un sistema che ha salvato molte vite e che ha fatto sentire meno sole moltissime persone. Questi aiuti vanno potenziati, non fatti sparire.

 



Immaginiamo per un attimo che lei abbia vinto le primarie, le elezioni e sia diventata la nuova sindaca. Come vede la città da qui a un anno? E fra cinque anni? E invece nel lungo periodo, cioè diciamo fra dieci anni?
Nel breve periodo si possono cominciare a definire quegli aspetti fondamentali del decentramento di cui parlavo prima, che nel corso della legislatura si riusciranno a definire e a rendere operativi. I frutti saranno poi evidenti nel lungo periodo, con la possibilità di avviare a soluzione gli annosi problemi della Capitale. E i romani potranno tornare ad essere orgogliosi della propria città, anziché vergognarsene.

Se lei dovesse vincere le primarie, potrebbe porsi il problema dei rapporti fra il centrosinistra e il Movimento 5 Stelle. Lei è favorevole alla ricerca di un accordo, oppure, dato anche il suo passato politico, lo ritiene un obiettivo sbagliato, o addirittura dannoso?
È più che dannoso: è nocivo! Non ha senso cercare accordi di palazzo col Movimento, che ha già evidenziato tutti i suoi limiti e il suo fallimento. Invece ha senso dialogare con quelli che furono i suoi elettori e rispondere a quelle esigenze di rinnovamento e pulizia, che portarono il Movimento a vincere, cinque anni fa, le elezioni capitoline.

In conclusione, cosa immagina per il futuro di Roma e che augurio fa alla sua città, chiunque dovesse diventarne il prossimo sindaco?
Auguro alla città di potere avere un sindaco finalmente capace e competente, qualunque esso sia, che permetta alla città di recuperare ottimismo ed entusiasmo.

 

 

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