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Mercoledì 2 Giugno 2021 07:06

Ghost contro Mr Wolf

Lo scontro fra le due anime della destra e l’impasse delle candidature per il Campidoglio

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Le guerre del XXI secolo raramente si dichiarano. Scoppiano quanto e più di prima, ma ufficialmente mai, o quasi mai. Al massimo si parla di peacekeeping, di operazione umanitaria, o si coniano altri termini, tanto ipocriti quanto creativi, per confondere le acque e fare propaganda.

Vale anche per le guerre politiche. Vale per le lotte interne ai partiti e agli schieramenti, dove non c’è mai da preoccuparsi quando qualcuno grida a gran voce che vuole farti fuori. C’è però da farlo se un tuo amico e collega di partito, ti sussurra benevolo: #enricostaisereno. Vale a sinistra. Vale tantissimo a destra, dove l’unità, da decenni, regna sovrana. Apparentemente.

Vale, dunque, anche per quest’inafferrabile candidatura fantasma a potenziale sindaco della Capitale, che da mesi, in zona ex PDL, non riesce a decollare. Ne avevamo accennato, giorni fa,
in un nostro articolo sul tema
, anche se, fino a ieri, dire che ciò avvenisse per via di una guerra interna, per colpa dei veti incrociati fra i partiti e le correnti di area, sembrava fosse solo un vago sospetto. Uno dei tanti. Tutt’al più una concausa.

Ora, però, l’ipotesi che l’interminabile surplace del centrodestra sul nome del proprio candidato a primo cittadino di Roma, sia il sintomo evidente di una guerra sotterranea, in atto fra le diverse anime di quello schieramento e che sia questo il principale – e forse unico – nodo, comincia a prendere sempre più corpo e a divenire di dominio pubblico.



A fornire nuovi, rilevanti, indizi che vanno in questa direzione, di recente, è stata nientemeno che Giorgia Meloni in persona, grazie a una lunga intervista rilasciata a Nicola Porro, il 31 maggio, nel corso della trasmissione televisiva “Quarta Repubblica”.  Per poi ribadire il tutto, il primo giugno,
anche al Corriere della Sera
, quasi a ratificare che quello è davvero il suo pensiero.

Non che, durante le due interviste, lei abbia detto nulla di così clamoroso, per carità. Anzi, a una domanda specifica di Porro, che ventilava l’esistenza di un patto segreto fra Berlusconi e Salvini, per fondersi in un nuovo partito e provare così a mettere in minoranza Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni ha ovviamente negato qualunque divergenza con gli alleati e men che mai l’esistenza di un patto contro di lei.

“Non credo assolutamente che Salvini e Berlusconi stiano ragionando di fare una cosa del genere – ha risposto la leader di Fratelli d’Italia – Vorrebbe dire lavorare per perdere e questo non credo ce lo abbia in testa nessuno”. Salvo però aggiungere, un attimo dopo: “Se decidessero di farlo, guarderei con rispetto. Io posso avere qualche dubbio, perché venendo dal PDL posso dire che le differenze sono un valore aggiunto e non è detto che mettendosi insieme le cose vadano meglio”.

Insomma: “non è vero nulla, però se fosse vero…” ha detto Giorgia, quella leader in forte ascesa, che ormai in molti chiamano affettuosamente – o sarcasticamente, a seconda delle posizioni – solo col suo nome di battesimo. Si sa, però, che le dichiarazioni di un esponente politico vadano lette più per ciò che traspare fra le righe, che per ciò che è detto apertamente. Dunque, a guardare in controluce le sue frasi, comincia a crescere il sospetto che, forse, l’ipotesi ventilata da Porro non sia così peregrina.

Forse, dopo la svolta governativa di Lega e Forza Italia, se l’opposizione di Giorgia Meloni veniva inizialmente vista di buon occhio dagli altri due leader della coalizione, come una pura mossa tattica, per frenare la possibile emorragia dell’elettorato di destra contrario al governo Draghi, oggi – con l’exploit di Fratelli d’Italia, dato da molti sondaggi come secondo partito nazionale, a un soffio dal diventare il primo – quella stessa opposizione “tattica”, assume contorni più preoccupanti, in ottica di concorrenza interna. E il possibile sorpasso finale di FDI sulla Lega, va dunque scongiurato con ogni mezzo.

In questa guerra non dichiarata, la “battaglia di Roma”, diventa perciò fondamentale per determinare il peso delle forze in campo. E se, formalmente, la mancata ufficializzazione di una candidatura condivisa si dice ancora che sia solo il frutto di valutazioni attente e approfondite, che i tre principali leader di centrodestra stanno facendo di comune accordo, questo comune accordo risulta sempre più evidentemente una chimera, una patina di vernice, messa per nascondere le crepe e tranquillizzare l’elettorato.

Lo ha evidenziato, sempre nel corso delle stesse interviste prima citate – e sempre con una parte di non detto, fra le righe – la solita Giorgia Meloni. Da Porro, dopo aver parlato a lungo del suo libro “Io sono Giorgia”, in testa alle classifiche di vendita, quando le domande hanno cominciato a concentrarsi sul tema “Sindaco di Roma”, spiazzando molti, l’autrice di quella biografia di successo, ha fornito un convinto endorsement per una candidatura che pareva, da qualche giorno, definitivamente uscita dai radar: quella di Enrico Michetti. Un nome poi ribadito anche al Corriere della Sera.


La sorpresa, per molti addetti ai lavori, è stata forte, perché la candidatura di Michetti, lanciata per la prima volta su piazza un paio di settimane fa, sembrava più che altro una sorta di test, quasi un depistaggio, buono soprattutto per comprendere le reazioni dell’elettorato e degli alleati. I quali, rapidamente, avevano stroncato quella proposta, storcendo parecchio il naso ed etichettando Enrico Michetti – quasi all’unisono – come un “Signor Nessuno”.

Rilanciare oggi quel nome – ignoto a molti e dopo aver ricevuto tante autorevoli stroncature – da parte della leader del partito più “trendy” del momento, su una rete televisiva nazionale e sul principale quotidiano italiano, assume perciò un nuovo significato. Vuol dire, infatti, non temere più uno scontro frontale coi due alleati di coalizione che, nel frattempo, orfani di Bertolaso, avevano comunque proposto pubblicamente altre ipotesi, di ben diverso segno: esponenti politici come Maurizio Gasparri, o nomi della società civile come Simonetta Matone.

Per chi conoscesse appena un po’ Enrico Michetti e provasse a metterlo a confronto, che so, con un Gasparri – o con la stessa Matone – risulta subito evidente la distanza siderale che separa lo stile dei due esponenti, sia per la forma che per i contenuti. L’uno, di fatto, pare quasi la sconfessione dell’altro, rappresentante di una visione della politica e della società quasi antitetica.



Dunque, che sia in atto una prova di forza fra due anime molto diverse e, forse, irriducibilmente in conflitto, all’interno dello schieramento di centrodestra, sembrerebbe ormai chiaro, quando i nomi che vengono proposti dagli uni e dagli altri, risultano così inconciliabili.

Per usare categorie stereotipate – nate nel secolo scorso e quindi oggi in gran parte inadatte a capire il fenomeno – si potrebbe parlare della lotta fra la tradizione della destra sociale e popolare, contro quella più liberista e liberale, finora maggioritaria nello schieramento; di una destra di popolo, contro quella d’élite. O, forse, sarebbe ancora meglio parlare di una destra di lotta, contro una di governo, viste le posizioni oggi in atto a livello parlamentare.

Innanzi tutto, però, cerchiamo di capire chi sia questo Enrico Michetti, un nome che dice ben poco ai più. Tranne, forse, agli ascoltatori di “Radio Radio”, dove da tempo lui è di casa come opinionista. Enrico Michetti è un avvocato amministrativista, “di quelli che i sindaci chiamano per risolvere i problemi dei comuni” ha aggiunto Giorgia Meloni.

È proprio a questo punto che Giorgia, nelle due interviste citate, ha dato davvero il meglio di sé, non limitandosi più soltanto a sostenere politicamente Enrico Michetti, ma trasformandosi in una sorta di Andy Wahrol 2.0 e tracciandone, con mano ferma e decisa, un immaginifico ed efficacissimo ritratto pop.
“Ve lo ricordate Mr Wolf di Pulp Fiction? – ha detto Giorgia – C’era Mr Wolf ‘io risolvo problemi’? Ecco, Michetti è il Mr Wolf dei sindaci”. Chapeau. In questa inattesa e sorprendente definizione di “Mr Wolf dei sindaci”, c’è davvero un capolavoro comunicativo meloniano.



Da grigio e fumoso “candidato inesistente”, in stile Italo Calvino, Michetti è assurto infatti, in un attimo, al ruolo di coloratissimo candidato “stracult”, degno di un grande successo cinematografico internazionale. Un candidato che porta la firma addirittura di Quentin Tarantino.

In questa trovata, c’è anche, a mio avviso, l’essenza più autentica e profonda della nuova destra di Fratelli d’Italia, il segreto del suo attuale successo. E c’è soprattutto la sua profonda e irriducibile differenza, non solo con la destra leghista e berlusconiana, ma anche con quella nostalgica e neofascista, la cui etichetta in molti vogliono mantenere cucita addosso ai “Meloni boys”.

La cosiddetta “Generazione Atreju” – dal nome della più importante manifestazione pubblica organizzata da quell’area politica – quella dei quarantenni, di cui Giorgia Meloni è la più autorevole esponente, è infatti una generazione cresciuta non a colpi di discorsi di Benito e di cinegiornali Luce, come qualcuno continua a pensare, ma semmai a dosi massicce di musica e film di culto: dalle commedie anni ottanta, a Braveheart, all’immancabile trilogia del Signore degli Anelli.

È anche una generazione capace di alternare buone letture ed elementi pop, di avere sul comodino il “Don Chisciotte” di Cervantes –
come ci ha detto in un’intervista Chiara Colosimo
, giovane consigliera regionale di Fratelli d’Italia – e di ascoltare i brani di cantautori un tempo appannaggio esclusivo della sinistra: dai Modena City Ramblers ai CSI, da Giorgio Gaber a Fabrizio De André, autore preferito di un altro quarantenne emergente del partito romano, come Francesco Filini.



A destra, c’è dunque in atto una sorta di scontro generazionale, prima ancora che politico, fra chi è nato a partire dagli anni settanta e ottanta – più capace di superare senza fatica gli steccati della destra tradizionale, di coniugare patriottismo e, in molti casi, una sensibilità per temi ritenuti esclusivi della controparte politica, come quelli ambientali, sociali e civili – che si contrappone agli esponenti più agé.

A questa generazione di quarantenni, sebbene per età lui superi di gran lunga i cinquanta, Enrico Michetti di sicuro parla un linguaggio più affine ed è il più vicino, almeno fra i candidati papabili finora espressi a destra: il suo fare deciso, da capopopolo, piace alla “Generazione Atreju”, tanto quanto il suo uso sapiente, all’interno di un eloquio popolaresco e dalla forte cadenza romana, di frequenti citazioni colte, spesso in latino.

Sono, chiaramente, le stesse ragioni per cui non piace all’altra metà del cielo: cioè all’altra destra capitolina e nazionale. Per non parlare di quella sinistra che, per esorcizzare il personaggio, ha provato fin da subito a incasellarlo dentro i confini del proprio schema classico di riferimento: fascisti vs antifascisti, affibbiandogli, ovviamente, la rassicurante e meglio conosciuta etichetta di “nostalgico”.

“Confesso che il nervosismo espresso dalla sinistra su Michetti mi ha colpito – ha detto Giorgia – Evidentemente si rendono conto che è più attrezzato dei loro numerosi e divisi candidati”. “Forse – ha aggiunto – anche loro capiscono che la partita non è così facile, soprattutto se metti in campo qualcuno che ne sa più di loro, su come si risolvono i problemi della capitale. Perché, parliamoci chiaro, bello il nome, il nomone, il personaggione, ma poi devi far camminare una delle macchine più complicate d’Italia. Se lo sai fare fai la differenza, se non lo sai fare sei morto. Lo abbiamo visto con la Raggi”.

Di fronte a un deciso ed energico Mr Wolf, le candidature suggerite finora da quella destra che abbiamo definito “di governo” – Lega e Forza Italia – sembrano, loro sì, venire da un nostalgico passato. Ma non il lontano passato del ventennio, bensì quello più recente del berlusconismo rampante, sfolgorante, di successo.



Un passato che faceva abbondante uso di personaggi non radiofonici, come nel caso di Michetti, bensì televisivi, come da tradizione berlusconiana e come è per il nome di Simonetta Matone, ospite più o meno fissa a “Porta a Porta”, fin dagli albori di quella trasmissione, sul finire degli anni novanta.

Se, dunque, da una parte c’è il sanguinario Quentin Tarantino a curare la regia, dall’altra abbiamo forse il romantico Jerry Zucker, il regista di “Ghost”, uno che ci ripropone, fra gli altri, anche un etereo e semprevivo Maurizio Gasparri, nel ruolo di chi vuole rimanere ancora a sporcarsi le mani fra noi mortali, prima di ritirarsi fra gli eletti, provando a far sentire agli elettori la sua presenza, grazie all’afflato di un amore, in fondo, mai sopito. Con i cittadini romani nella parte che fu di Demi Moore.

Tra queste due visioni, quasi inconciliabili, c’è infine, a metà del guado, una terza possibile alternativa, quella rappresentata da un attualmente irrisolto Matteo Salvini, incapace, al momento, di esprimere una sua chiara posizione, troppo preso, com’è, nel barcamenarsi con un partito che cerca ancora di mantenersi double-face, cioè sia di lotta che di governo, finendo però, troppo spesso, per risultare scarsamente credibile in entrambi i ruoli.

Come finirà la partita, oggi non è dato sapere. Tutto è ancora possibile. Nel frattempo, mentre prosegue lo scontro e la conseguente impasse delle candidature, il centrosinistra e Virginia Raggi ringraziano, accumulando in tal modo un vantaggio iniziale, data l’assenza di concorrenti. Un vantaggio che potrebbe anche risultare determinante al momento della verifica elettorale di ottobre.

 

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