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Lunedì 14 Giugno 2021 06:06

L’ultimo dei giapponesi

Mitsukoshi lascia Roma dopo cinquant’anni. Il grande magazzino era la meta quasi obbligata per i nipponici che arrivavano in Italia. Segno di una crisi del turismo sempre più profonda e un campanello d’allarme per il futuro dell’intera economia romana

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Il Giappone, quel paese rimasto per molti versi misterioso, affascinante, esotico, persino in tempi di globalizzazione, ci aveva abituati ad essere sempre l’ultimo ad arrendersi, anche quando le sorti di una guerra sembravano volgere al peggio.
Lo aveva fatto dopo la resa della Germania, durante la seconda guerra mondiale, piegato solo dall’atomica. Lo aveva fatto, romanticamente, anche dopo la propria stessa resa, quando Hiroo Onoda, l’ultimo dei giapponesi, rimase per altri trent’anni a combattere nella foresta, da solo, imprendibile, testardo, coraggioso e fedele.

Fa dunque ancora più effetto quando si scopre che proprio i giapponesi, in questa strana “guerra” in atto contro la pandemia e contro i suoi effetti economici, alzino bandiera bianca.
Sembra il segno che davvero non ci sia più niente da fare, che la crisi post Coronavirus sia definitiva e senza speranza, nonostante gli appelli alla ripresa e gli “andrà tutto bene” che vengono ripetuti, anche se con sempre minore convinzione.



È questo l’effetto psicologico, prima ancora che pratico, che ha prodotto l’annuncio della chiusura dei magazzini Mitsukoshi di via Torino, a Roma. Una chiusura che diventerà definitiva a partire dal 10 luglio. La decisione di chiudere la sede romana – un punto di riferimento per tutta la comunità nipponica, oltre che per i turisti, ininterrottamente attivo dal 1975 – sarebbe dovuta, come è scritto nel comunicato dell’azienda giapponese, a “vari motivi, tra cui il nuovo Coronavirus”.

Al momento sono 46 i dipendenti impiegati in quella sede che rischiano il proprio posto di lavoro, di cui la maggioranza al di sopra dei 50 anni e, dunque, di difficile ricollocazione, soprattutto in un momento di crisi come l’attuale.
Ma, come dicevamo prima, al di là del devastante effetto pratico che la chiusura produrrà su quelle 46 famiglie, ciò che dovrebbe preoccupare tutti i romani è l’aspetto simbolico della vicenda, per una città che, da secoli, è aperta ai visitatori di paesi anche lontani, ma che pare ora ripiegarsi su se stessa.

Non sfugge a nessuno, inoltre, il fatto che le aziende giapponesi solitamente siano, per stile e per cultura, le più rigorose nelle proprie analisi economiche sui costi e sui benefici di un’impresa e che, dunque, l’addio a Roma di una società nipponica, suoni come un giudizio serio, importante e, in questo caso, molto negativo, sul futuro a breve e a lungo termine, che si prevede per la nostra città.

Senza scomodare la Roma imperiale e multietnica del periodo dei Cesari, sono perlomeno 721 anni che l’economia cittadina è strettamente legata al turismo. Almeno da quando il Papa Bonifacio VIII annunciò il primo grande Giubileo del 1300 e frotte di pellegrini, da ogni parte del mondo, si riversarono a Roma.
Al di là degli aspetti spirituali e religiosi della questione, fin da subito quei pellegrini divennero un business, che portò già allora all’apertura di locande, trattorie, botteghe, antesignane degli attuali negozi di souvenir.



Persino il dialetto romanesco, così come lo conosciamo oggi, è il prodotto plurisecolare della vocazione turistica di Roma. Fino al trecento, infatti, in città si parlava una lingua molto simile a quella poi sviluppatasi nel sud d’Italia, a Napoli, in Ciociaria. Però, l’arrivo di numerosi forestieri, portò i romani ad adottare un linguaggio che fosse più universale e comprensibile.
Da qui il risultato di un dialetto che, fino al secolo scorso, risultava diversissimo da quello parlato nelle campagne circostanti – caso pressoché unico in Italia – dato che i romani avevano accolto, anche linguisticamente, a differenza di chi viveva fuori città, stimoli e termini provenienti dalle regioni più diverse, per meglio comunicare coi visitatori.

Non a caso il periodo più buio dell’intera storia di Roma, quello che portò la città a spopolarsi fino a raggiungere meno di 30 mila abitanti, fu proprio quello in cui il turismo dei pellegrini si arrestò, con lo spostamento della sede papale ad Avignone. L’intera economia di Roma crollò a picco per quasi un secolo, salvo riprendere col ritorno del Papa e del turismo, spirituale e non.

Chi pensa che il fenomeno dell’attuale contrazione turistica a Roma sia meno preoccupante rispetto ad allora, poiché più limitato nel tempo e nelle proporzioni, dovrebbe riflettere con una certa attenzione sui dati pubblicati di recente da alcuni importanti istituti di ricerca.

Nel mese di marzo di quest’anno,
Intesa Sanpaolo
e Srm – il centro studi collegato al gruppo bancario – hanno diffuso i risultati di un’analisi, che ha coinvolto tutti i principali operatori del settore.
La ricerca è stata denominata Scenario e prospettive di ripresa della filiera turistica a Roma e nel Lazio. Un titolo benaugurante, se non fosse che i risultati di questa indagine, attestano una contrazione della domanda turistica, nella città di Roma, pari a un -74,1%.
In pratica, i tre quarti dei clienti del settore e i relativi proventi, sono scomparsi nel nulla.

Va appena un briciolo meglio nel resto del Lazio, con un calo del -71,8%, comunque di notevolissime dimensioni. A fronte di un calo più contenuto delle presenze italiane (circa -45%) è poi avvenuto un tracollo di quelle straniere (circa -88%).
Considerando che il turismo incideva, fino al 2019, per circa il 10% sull’intero PIL cittadino e regionale, è facile farsi due conti e comprendere gli effetti devastanti che questa crisi provoca sull’economia e sull’occupazione capitolina.



Non si discostano di molto i dati pubblicati ad aprile da
Coldiretti
, sulla base di una ricerca operata da Isnart-Unioncamere. Questi dati sono un accorato grido di allarme per l’intero settore, un tempo molto fiorente. In base a quest’analisi, il calo dei turisti nel Lazio si attesta attorno a un -77%, con una perdita del fatturato superiore al -60% non solo per le strutture ricettive, ma anche per tutto l’indotto.

“La situazione è critica – ha detto il presidente di Coldiretti Lazio, David Granieri, nel presentare i risultati della ricerca – Solo nella nostra regione nel 2020 si è registrata una perdita di 160 miliardi di euro di PIL e le perdite di fatturato del settore della ristorazione sono state pari a 38 miliardi e di 100 miliardi quelle della filiera del turismo. Perdite che inevitabilmente ricadono su tutta la filiera agroalimentare”.

La questione è gigantesca e di non facile soluzione. Nella migliore delle ipotesi, tutte le imprese del settore si troveranno a dover adeguare – in tempi molto rapidi – le proprie strutture ai protocolli sanitari, rendendo gli ambienti più salubri, con esborsi che in alcuni casi dovranno essere molto copiosi.
Per riconquistare il turismo internazionale, sarà poi necessario puntare su politiche di marketing forti e su una riqualificazione dell’offerta di prodotti e servizi. Tutte cose che necessitano di un serio coordinamento e di un deciso sostegno pubblico, economico e politico.

Quello che più stupisce, in questo quadro d’insieme dalle tinte piuttosto fosche, è però il silenzio pressoché unanime della politica e dell’informazione, settori che, salvo poche lodevoli eccezioni, non sembrano dare la dovuta rilevanza al problema.
Non solo questo avviene a livello nazionale, ma – e ciò sorprende ancora di più, visto il momento pre-elettorale, con la corsa alla carica di sindaco capitolino – anche a livello locale.



Nelle scorse settimane, noi di RomaReport,
abbiamo intervistato la stragrande maggioranza dei candidati alla poltrona di primo cittadino
, oltre a vari esponenti politici fuori dalla corsa al Campidoglio. Un’occasione, per tutti, adatta a lanciare idee, proposte e possibili soluzioni, capaci di affrontare una crisi che colpisce una fetta non secondaria di cittadini – e, dunque, di potenziali elettori – che vivono di turismo e del suo indotto.

Eppure ben pochi, fra coloro che ambiscono a salire in Campidoglio, hanno indicato, anche marginalmente, fra i problemi di Roma, la crisi del settore turistico, con le relative ricadute economiche per l’intera città. Nonostante sia ormai una questione che, anche in proiezione futura, è forse di pari importanza a quella, annosa, dei rifiuti, o a quella dei trasporti.

Nulla ci ha detto in proposito, ad esempio,
Carlo Calenda
, nonostante da diversi mesi stia “studiando da sindaco”, girando per vie e quartieri di Roma. Eppure, vivendo in centro, dovrebbe essersi accorto della desertificazione che l’assenza di visitatori ha provocato soprattutto in quell’area della città.

Nulla ci ha detto, in merito, nemmeno la sindaca in carica
Virginia Raggi
, che pure dovrebbe essere la più impegnata nel risolvere con tutte le sue forze la questione, ma che, di fronte a una nostra domanda specifica, ci ha parlato solo di interventi tampone per i lavoratori più in difficoltà, senza indicarci nessuna strategia complessiva.

Qualcosa, forse perché anche lei stimolata da una specifica domanda, ci disse
Sabrina Alfonsi
, da diversi anni presidentessa del Municipio I di Roma Centro, il territorio più direttamente investito da questa crisi. Ma Sabrina Alfonsi – per quanto il suo nome a lungo circolò fra i papabili – non è in campo fra i potenziali candidati alla poltrona di sindaco.



Per tutti gli altri, solo un lungo, mesto silenzio, quasi generalizzato, con le lodevoli eccezioni di
Vittorio Sgarbi
, il quale, date le sue competenze, ha provato ad abbozzare delle ipotesi per contrastare la crisi del settore – tutte però legate a pure operazioni di comunicazione e di marketing – e di
Cristina Grancio
, esponente del PSI, in lizza per le primarie di centrosinistra, che ha indicato la necessità di puntare su un diverso tipo di turismo, meno mordi e fuggi e più di qualità.
Sulla stessa linea d’onda, anche il parlamentare
Massimiliano De Toma
, di Fratelli d’Italia. Un rapido accenno alla questione ci è arrivato infine da
Tobia Zevi
e da
Giovanni Caudo
, altri due candidati alle primarie di centrosinistra.

Sono coloro che, pur appartenendo ad aree politiche molto diverse, sembrano essersi quantomeno posti il problema. Gli altri, se lo hanno fatto, si sono finora dimenticati di comunicarcelo.
Attendiamo adesso di scoprire cosa dirà in proposito il neo nominato candidato sindaco di centrodestra, quell’Enrico Michetti, presentato mediaticamente come Mr Wolf, che risolve i problemi e che, dunque, ci auguriamo possa avere una possibile soluzione anche per questo problema specifico.

Lasciare il settore turistico in balia degli eventi, senza una rapida ed efficace strategia, rischia, infatti, di essere  imperdonabile. Non solo per le ragioni già indicate, non solo perché si getta alle ortiche una fetta importante dell’economia cittadina e dell’immagine di Roma nel mondo, ma anche perché si lascia campo libero alla criminalità organizzata – unica ad avere interesse a investire e riciclare denaro, in attività economicamente perdenti ma formalmente “pulite” – per rilevare gran parte degli alberghi, dei negozi di souvenir, dei ristoranti romani in difficoltà.
Un’eventualità che credo tutti, di qualunque colore politico, abbiano voglia di scongiurare in ogni modo.

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