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Lunedì 5 Dicembre 2022 10:12

“Amleto in salsa piccante”.

TEATROVID-19 Il teatro ai tempi del Corona e oltre Teatro Portaportese Di Aldo Nicolaj. Regia di Giorgia Passeri. Con: Andrea Mariani (il cuoco Froggi), Flavia Di Domenico (Cathy, cuoca e moglie di Froggi), Simona Calcagni (Inghe, la figlia dei cuochi), Duccio Mantovani (il servo stralunato), Antonella Malgrande (la serva ubriaca), Daniele Sgambato (Amleto), Antonella Alfieri [...]

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Teatro Portaportese
Di Aldo Nicolaj.

Regia di Giorgia Passeri.
Con: Andrea Mariani (il cuoco Froggi), Flavia Di Domenico (Cathy, cuoca e moglie di Froggi), Simona Calcagni (Inghe, la figlia dei cuochi), Duccio Mantovani (il servo stralunato), Antonella Malgrande (la serva ubriaca), Daniele Sgambato (Amleto), Antonella Alfieri (la regina), Alessandro Capone (Orazio), Paola Santamaria (Ofelia), Fabio Tiso (Laerte e falsa regina), Corrado Scalia (re Claudio).

Allestimento scenico di Liborio D’Amico, costumi di Estrocostumi.

Tutte le serate nell’accogliente teatro Portaportese con questo spettacolo sono andate sold out, e di questi tempi…
Inoltre, la commedia porta in scena ben undici attori, e torno a dire di questi tempi…
Apprezzabile e gradita l’accoglienza ai presenti con un aperitivo offerto dalla compagnia prima di entrare in sala…

Forse a stimolare l’interesse del pubblico è stata anche “l’insana” idea di Aldo Nicolaj di stravolgere l’Amleto di Shakespeare, trasformandolo da tragedia a commedia, proponendo una realtà differente, vista dalla servitù impegnata all’interno delle cucine del castello di Elsinore e trasformando il racconto in un’ opera comico grottesca.

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La compagnia è formata soprattutto da attori non professionisti, e dunque gli si possono perdonare alcune leggerezze. Di fatto, però, riescono a ricreare realisticamente quella confusione delle cucine sovraffollate dalla servitù impegnata a correre a destra e a manca per soddisfare i loro padroni, riproponendo anche le loro rozze e schiette battute sia sui compagni di lavoro che sui regnanti.

La regia decide di far parlare i nostri in dialetto toscano e la cosa risulta molto divertente, anche perché il tutto è vivacizzato da una loro marcata espressività. L’interpretazione naturale e spontanea della servitù, però, a mio avviso non è la stessa espressa dall’altro gruppo, quello dei nobili, che ho percepito più debole e forzata. Anche loro, comunque, divertono sia con le movenze che con le espressioni, adottando un linguaggio aulico con l’immancabile “r moscia”. È anche vero che è la scrittura a voler sminuire e denigrare, riducendola a macchietta, questa nobiltà, e in effetti ci riesce. Il risultato è una satira che ridicolizza il potere perché nelle mani di reali sbagliati.

Ci troviamo davanti ad una proposta che ingloba in sé alcuni elementi del teatro dell’assurdo e del metateatro, in cui il pubblico viene parzialmente coinvolto. Nella nuova chiave di lettura il potere non fa più paura, non produce il senso di timore e di distacco sociale. La storia prende una piega più umana, alla portata anche dello spettatore a digiuno di Shakespeare che vuole divertirsi, ma adatta anche a quello preparato che ritroverà sicuramente gli aspetti più importanti e avrà occasione di riflettere.

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La commedia conserva in sé gli elementi originali dello storico lavoro ma che vengono rivisitati in chiave comica e alquanto surreale. Ne esce fuori una vera e propria critica verso il potere dei reali danesi che volendo sconfina anche nell’attualità, una proiezione della nostra società attuale, basta guardare i politici che ci governano…
Dunque allora perché non far spiccare i personaggi di secondo piano, quelli più umili come i servitori, ridicolizzando e declassando a ruolo di contorno e comparse quelli shakespeariani?

La ricostruzione della cucina è efficace: i rumori di fondo e quelli che provengono dalla sala del trono sono realistici e irrompono sulla scena, creando uno stacco che incuriosisce lo spettatore distogliendolo dai fatti della cucina, in trepidante attesa di quelli che provengono dalle sale del castello.

I costumi, però, sono un improbabile miscela di tutto ciò che è presente nel medioevo, poco realistici confusi dal punto di vista storico; ma è palese che siano fatti con amore e passione e con il fine di trasmettere solo simpatia ed ironia.

Le spade probabilmente sono ricavate da qualche ringhiera in disuso, appaiono visibilmente pesanti, storte ed arrugginite, forse proprio per marcare la decadenza del potere.
La spada, infatti, è un’ arma da sempre associata alla nobiltà, alla giustizia, al potere o a virtù che qui appaiono assai sfocate. In alternativa, la scelta del loro aspetto degradato vuole forse ridicolizzare la guerra, rappresentandola come una scelta arcaica ed inutile, superata.

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Il duello tra i nobili che ne segue è alla Monty Python: buffo, irriverente, atto a ridicolizzare gli stessi duellanti e con essi tutto il loro sistema di vita. Non si intravedono il coraggio o la forza nell’azione; tutt’altro, ne esce una rappresentazione che ricorda due bambini sciocchi che giocano con le spade a Carnevale. Ecco, la nobiltà è ridotta ad una carnevalata. Non ha una sorte migliore un altro simbolo della classe aristocratica dell’epoca: l’armatura, sinonimo di cavalleria e di nobiltà d’animo.

Visibilmente raffazzonata, vagamente quattrocentesca, con un elmo duecentesco e la celata cinquecentesca… È visibilmente fatta a mano da qualche volenteroso artigiano con scarse conoscenze del periodo storico, che però con indubbio impegno si è prodigato nella sua realizzazione non facile. L’armatura è appariscente, sicuramente di impatto, ma molto buffa, così come chi la indossa, che vi si muove all’interno con visibile e voluta difficoltà, anche questo per rimarcare la distanza sociale. È il cuoco infatti ad indossarla, mai avrebbe potuto portarla indosso o ancora meno possedere una così costosa opera metallurgica a quell’epoca. Veste da uomo d’arme solo per apparire come il fantasma del re morto per impaurire Amleto. Spacciandosi per il re infatti, cercherà attraverso i “consigli paterni”, di guadagnare la benevolenza del regnante.

Quella che può sembrare una critica senza repliche, tiene però conto che questa compagnia è formata, come dicevo sopra, soprattutto da attori amatoriali, che si autofinanziano e che con i loro evidenti enormi sforzi sono riusciti a portare in campo una commedia coinvolgente che ha comunicato messaggi importanti, messo in evidenza valori fondamentali e divertito il pubblico. E questo è quello che conta.

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Gli attori che più mi hanno colpito per recitazione, espressività, abilità nel riempire le scene quando non erano in primo piano con ammiccamenti, gesti e smorfie, sono sicuramente Flavia, Andrea, Duccio, Simona ed Antonella.

Flavia, Andrea e Simona sono i protagonisti e i padroni della scena, ricchi di sfumature espressive e recitative, “disturbati” dal servo sempre eccitato che cerca relazioni con chiunque. Nascosto da una parrucca con taglio a caschetto e il labbro inferiore sporgente, ricorda un mix dei componenti del famoso gruppo musicale degli anni ’50-’60: “I Brutos”; enfatizza con successo le sue espressioni da rozzo cavernicolo in maniera davvero fantastica. Antonella, una piacevole antipatica ubriacona vive il palco come contorno attivo in una piacevole e curata scenografia.

Uno spettacolo in cui senza dubbio il gruppo di attori amatoriali troverà occasione per poter crescere artisticamente attraverso l’esperienza maturata sia con la regista Giorgia Passeri che con gli attori più esperti.

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