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Mercoledì 29 Luglio 2020 09:07

Tre migranti riportati in Libia e uccisi. Le associazioni: «Inaccettabile»

Libia UNHCR centri di detenzione
La sparatoria a est di Tripoli, durante le operazioni di sbarco. Erano stati intercettati in mare e ricondotti a terra dalla Guardia costiera libica. Oim: non è un porto sicuro

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Libia UNHCR centri di detenzione
Sono di origine sudanese i tre migranti uccisi nella sparatoria avvenuta nella notte tra 27 e 28 luglio a Khums, a est di Tripoli. La loro imbarcazione era stata intercettata in mare e quindi riportata a terra dalla Guardia costiera libica. Durante le operazioni di sbarco delle oltre 70 persone a bordo, il tentativo di fuga e gli spari, che hanno fatto anche altri 4 feriti, uno dei quali morto durante il trasporto in ospedale. Gli altri sono stati trasferiti nei centri di detenzione. A renderlo noto è l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), secondo cui «le autorità locali hanno iniziato a sparare nel momento in cui alcuni migranti, scesi da poco a terra, avevano cercato di darsi alla fuga».

Two Sudanese migrants were killed in a shooting in Libya last night, after being returned to shore.

IOM deplores this senseless violence and reiterates its appeal for urgent action to end the return of vulnerable people to Libya:
https://t.co/pOsq00sQqH
pic.twitter.com/zMmYagXGNw

— IOM – UN Migration (@UNmigration)
July 28, 2020


A parlare è Federico Soda, capo missione Oim in Libia. «Le sofferenze patite dai migranti in Libia sono intollerabili – afferma -. L’utilizzo di una violenza eccessiva ha causato ancora una volta delle morti senza senso, in un contesto caratterizzato da una mancanza di iniziative pratiche volte a cambiare un sistema che spesso non è in grado di assicurare alcun tipo di protezione». Anche l’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati, chiede «un’indagine urgente», deplorando la «tragica perdita di tre vite umane». Per Vincent Cochetel, inviato speciale Unhcr nel Mediterraneo centrale, «questo incidente sottolinea con forza che la Libia non è un porto sicuro per lo sbarco. È necessario aumentare la capacità di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, includendo le navi delle ong, al fine di aumentare la probabilità che le operazioni di salvataggio conducano allo sbarco in porti sicuri al di fuori della Libia. C’è anche bisogno di maggiore solidarietà tra gli Stati costieri del Mediterraneo».

Sulla stessa linea il commento del presidente del Centro Astalli padre Camillo Ripamonti, secondo cui «questo fatto grave dimostra che la Libia non è un porto sicuro. Riportare le persone in una situazione di instabilità conduce anche alla morte. Continuare a finanziare la Guardia costiera libica non ci dà la possibilità di verificare se la loro azione è in linea con il rispetto dei diritti umani». Il gesuita guarda alle scelte degli ultimi anni, che «hanno messo al centro gli interessi dei singoli Stati e dell’Unione europea anziché la salvezza delle persone», evidenziano che la situazione in Libia si è aggravata negli ultimi anni. «La soluzione di riportare o utilizzare la Libia come frontiera esterna dell’Europa, così come la Turchia per i siriani, non è rispettosa dei diritti delle persone», aggiunge. La richiesta del Centro Astalli, così come di tante altre associazioni, è di «procedere all’evacuazione dei centri di detenzione libici ed elaborare percorsi alternativi e in sicurezza, come i corridoi umanitari, per sottrarre le persone ai trafficanti».

Parla di «ennesima dimostrazione delle violenze, degli abusi e delle gravissime violazioni dei diritti umani di cui uomini, donne e bambini continuano a essere vittime in Libia per mano delle autorità locali» anche Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children. La Libia, prosegue, «non è un porto sicuro e le persone che vengono riportate lì vengono condannate a ulteriori soprusi e torture inimmaginabili». Dall’inizio dell’anno, ricordano da Save the Children, circa 5mila persone sono state intercettate in mare dalla Guardia costiera libica e riportate indietro. Persone che «rischiano di essere messe in detenzione arbitraria, abusate, torturate o vendute come schiave», sottolineano. Di qui l’appello di Milano a «porre immediatamente fine, senza più voltare lo sguardo dall’altra parte, ai trasferimenti e ai ritorni dei migranti in Libia. Non bisogna sostenere e incoraggiare in alcun modo queste operazioni contrarie al diritto internazionale», ammonisce, aggiungendo che «l’incolumità delle persone, e in particolare dei minori, compresi quelli non accompagnati, non può essere messa in nessun modo in pericolo dal rinvio in un Paese dove per loro è altissimo il rischio di subire torture, violenze o abusi».

Punta il dito sulla responsabilità condivisa dall’Italia la riflessione di Emergency. «L’uccisione di persone la cui unica colpa era quella di fuggire da un Paese piegato da anni di scontri e violenze è intollerabile – si legge in una nota diffusa ieri, 28 luglio -. Avendo appena votato a maggioranza il rifinanziamento della Guardia costiera libica, l’Italia ne è complice». L’organizzazione chiede quindi che l’Italia «cessi al più presto ogni collaborazione con la Guardia costiera libica e riprenda a soccorrere chi chiede aiuto nel Mar Mediterraneo. Ogni collaborazione – sostengono da Emergency – è da ritenere ormai inaccettabile: esistono innumerevoli testimonianze e inchieste sui maltrattamenti e sugli abusi subiti dai migranti in Libia. È altrettanto inaccettabile che i migranti vengano riportati nei centri di detenzione, in un Paese in guerra, dove vengono violati tutti i basilari diritti umani. Il salvataggio in mare – è la conclusione – dovrebbe essere competenza europea e dovrebbero essere i singoli governi a farsi carico di un servizio di search and rescue continuo e affidabile».

29 luglio 2020

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