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Lunedì 5 Ottobre 2020 17:10

Il fascino discreto di Castelporziano

La storia della Tenuta presidenziale, dalla nascita nel 1872 alla Repubblica, passando per l'apertura al pubblico della spiaggia dei Cancelli nel 1966 e l'annessione di 1000 ettari di verde all'epoca del presidente Pertini. Castelporziano resta un polmone verde essenziale per la Capitale

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Se quattro mesi di lockdown hanno fatto ovunque bene all’ambiente, l’esclusività dei 60 chilometri quadrati della tenuta presidenziale di Castelporziano – talvolta accusata di essere un “privilegio” per chi abbia la ventura di giovarsene – sarà alla fine un vantaggio per tutta la Capitale, caduta agli ultimi posti della salubrità delle città d’Italia.  Chi il “privilegio” l’abbia avuto e lasciato, esercitando temporalmente un servizio nella più alta istituzione del paese, può ben testimoniare come qui pulsi sempre quel polmone verde che all’area urbana continua pervicacemente ad essere negato.

Del resto, proprio perché Roma potesse assolvere al ruolo di “splendida capitale”, come già nel 1860 (dieci anni prima della breccia di Porta Pia e dell’annessione al Regno d’Italia) Camillo Benso di Cavour aveva immaginato, si cercò di arricchirla con un fondo che raccogliesse le storiche riserve di caccia – Trafusa, Trafusifina, Capocotta – lungo la direttrice che dal centro della città muove verso il mar Tirreno. L’acquisto della grande tenuta dai marchesi Grazioli – con atto perfezionato nel 1872 dal ministro delle Finanze del Regno, Quintino Sella – serviva a invogliare Vittorio Emanuele II, appassionato di caccia, a trasferirsi nuovamente, da Firenze (dove era arrivato da Torino nel 1865) alla “città eterna”.



Ma subito tra la vegetazione si scoprì molto più di qualche animale selvatico. Già nel 1874 dagli arbusti emergevano le rovine di ville e quartieri urbani risalenti al tempo dell’imperatore Augusto. Fu poi la regina Elena, che coltivava una passione per l’archeologia, a promuovere i primi scavi e a portare alla luce preziosi reperti, dall’età protostorica a quella romana, che fanno bella mostra nel museo archeologico. Il museo è ospitato nel borgo compreso nell’area dominata dal castello, sulla cui torretta oggi sventolano le bandiere della Repubblica e dell’Europa e, quando la tenuta ospita il Capo dello Stato, il vessillo presidenziale.

Oltrepassare uno dei cancelli di Castelporziano – sulla Colombo o sulla Pontina, dall’Infernetto o dalla litoranea – è come attraversare il tempo e lo spazio, per entrare in un luogo dove i segni dell’uomo s’intrecciano con quelli della natura. Può capitare persino di vedere l’auto del Capo dello Stato fermarsi al passaggio di una fila di cinghialotti. Di ritrovarsi in un punto di ristoro che continua ad avere il tradizionale nome di locanda. Di passare da boschi ben curati a foreste inestricabili, lungo tragitti dove mille specie floreali convivono con 3000 specie faunistiche. Di vivere l’antichità all’aria aperta e studiarla al chiuso di ben tre musei. La tenuta è davvero una combinazione unica dei personaggi, delle vicende e delle culture che tanto hanno inciso nel divenire dell’Unità d’Italia, quella che ha messo radici nella storia millenaria di Roma, al punto che il panorama attuale di Castelporziano sembra richiamare quello raccontato da Plinio il Giovane in una lettera all’amico Gallo: “Vario qua e là il paesaggio; giacché a tratti il cammino è stretto a cagione dei boschi che ti vengono incontro, a tratti si attarda e si allarga in vastissime praterie”.



Una prima radura è proprio vicina al borgo, al di là della limonaia e del giardino della regina Margherita dove è stato ricostruito un mosaico a tessere bianche e nere rinvenuto nel Vicus Augustanus all’interno della tenuta. Lo spiazzo erboso è riservato ai cavalli non più in servizio del reggimento dei corazzieri, anziani e con qualche acciacco o – se così si può dire – in pensione, ma sempre magniloquenti. È stato il presidente Carlo Azeglio Ciampi – come ricorda una targa – a volere qui un maneggio per i cavalli, “silenti soldati che per molto tempo hanno servito con onore e amore la Presidenza della Repubblica”.

Questione di sensibilità, di stili individuali che a Castelporziano si sovrappongono e si amalgamano nella valorizzazione del patrimonio pubblico. Per dire. Se l’interno del castello, ristrutturato e ammodernato nel 1989 dal presidente Francesco Cossiga con l’aggiunta di un salone-teatro per gli eventi internazionali, ha sempre mantenuto il tradizionale arredo legato alla caccia, i rustici al servizio delle attività venatorie erano stati intanto destinati dal presidente Giovanni Leone, che la caccia aveva vietato, a incrementare il già solido allevamento di bovini e cavalli con esemplari di razze maremmane a rischio di scomparsa, ma qui tenuti da valenti butteri sempre allo stato brado, tanto da conquistare riconoscimenti d’eccellenza nelle rassegne specializzate.

L’opera ovviamente ha il suo costo, rigorosamente disciplinato da criteri che il secondo inquilino repubblicano del Quirinale (e quindi di Castelporziano), il severo Luigi Einaudi, aveva imposto a se stesso dovendo decidere di recuperare la tenuta dalla devastazione subita durante la seconda guerra mondiale con la spoliazione dei boschi, il bracconaggio, l’occupazione da parte di truppe tedesche prima e poi di un acquartieramento americano.

Si puntò a integrare quel tanto di verde che si era salvato con sughere, pini ed eucalipti, così da ricostituire e reintegrare un ecosistema (foreste, piscine naturali, ambienti umidi temporanei e permanenti, dune) ad un tempo continentale e mediterraneo; ecosistema che il presidente Oscar Luigi Scalfaro ha poi assoggettato al regime di tutela delle Riserve Naturali dello Stato, in tante parti del paese sottratte al degrado rendendole inaccessibili. E che l’Europa ha riconosciuto come Sito di importanza comunitaria (SIC) e Zona di protezione speciale (ZPS).

Del resto, la conformazione originaria della tenuta ha rischiato di essere alterata. Nella transizione dalla monarchia alla Repubblica, infatti, i mille ettari di Capocotta erano andati persi perché, con la morte di Vittorio Emanuele III di Savoia il 28 dicembre 1947, quattro giorni prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, i possedimenti diretti finirono agli eredi (Iolanda, Giovanna e Maria di Savoia, Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta d’ Assia) eccezion fatta per la quota del re di maggio, Umberto II, passata al demanio statale. Abbandonata a se stessa, a Capocotta accadeva di tutto. Anche, nell’aprile del ‘53, il “caso Montesi”, dal cognome di una ragazza il cui corpo fu ritrovato senza vita sulla spiaggia: le indagini (e ancor più le cronache giornalistiche) investirono alcune figure della “gioventù bene”, tra cui il figlio del ministro Attilio Piccioni che dovette dimettersi interrompendo la corsa alla successione di Alcide De Gasperi alla guida della Dc.

Non si fermarono, invece, le mire affaristiche su Capocotta, che ebbero il loro apice nel 1958 in una convenzione tra gli eredi Savoia e il Comune di Roma per una lottizzazione di ben due milioni e duecentomila metri cubi. Il successivo piano regolatore confermava il temuto scempio autorizzando 1.900 ville unifamiliari e alcuni alberghi, per i quali fu prontamente avviata la costruzione di strade e manufatti di base, suscitando la reazione di associazioni culturali e ambientali a cui era particolarmente sensibile il nuovo centro-sinistra, tanto da indurre il ministro socialista Giacomo Mancini a sottoporre la lottizzazione al Consiglio superiore dei lavori pubblici che nel dicembre del ‘ 67 la bocciò intimando al Comune di provvedere a una variante di piano regolatore.



Il vincolo di tutela ambientale fu formalizzato dal Comune nel ‘ 74 e, diventati inedificabili, i terreni di Capocotta persero valore, consentendo un minor esborso per l’esproprio da parte dello Stato che, nel 1985, consentì al presidente Sandro Pertini di annettere i mille ettari di verde ai cinquanta chilometri quadrati della tenuta presidenziale.

All’opposto, il valore del ricostituito bene pubblico risultava indubbiamente accresciuto. C’è voluto tempo, e pure un po’ di rimozioni e demolizioni hanno favorito il sopravvento della vegetazione sulle opere abusive compiute lungo quegli anni di aperto conflitto tra la potestà dello Stato e l’affarismo speculativo. Il rigore della gestione presidenziale ha fatto da scudo, almeno per il bene pubblico costituito dalla tenuta, ai tentacolari condoni di quegli anni. E tanta autorità ha contribuito a tenere a distanza anche una criminalità organizzata sempre aggressiva sul litorale romano, come rivelano anche recenti fatti di cronaca nera.

Per quanto gestito con sensibilità diverse, comune si rivela essere stato a Castelporziano il senso dell’interesse pubblico esercitato al di qua delle recinzioni che proteggono la tenuta dall’invadenza del cemento. Ma che, in fin dei conti, vale anche al di là della rete quirinalizia, sugli oltre due chilometri della spiaggia detta dei Cancelli che nel 1966 il presidente Giuseppe Saragat donò al Comune di Roma (è diventata la spiaggia libera più grande d’Europa) con il vincolo di attrezzarla senza compromettere la tutela dell’ecosistema costiero. Non è, per forza di cose, la stessa prova di integrità ed organicità che il Quirinale garantisce lungo i contigui tre chilometri di costa, pur aperta d’estate a segmenti adiacenti in scala – come dire – gerarchica, ai dipendenti, ai funzionari, ai dirigenti, ai consiglieri, al segretario generale, al presidente. E negli ultimi tempi anche, sulla base di un programma condiviso, ad alcune associazioni operanti a sostegno delle disabilità.



La ricerca di soluzioni di tutela partecipata a un bene comune di primario interesse naturalistico sembra dunque avere sbocco in pratiche di coesione sociale. Le prove generali di aperture mirate furono fatte dal presidente Giorgio Napolitano con le Feste della primavera per centinaia di studenti di ogni parte d’Italia che al loro arrivo piantumavano un’area, sul limitare del borgo, già diventata “boschetto della solidarietà”. Il presidente Sergio Mattarella ha poi favorito, insieme alle attività per i disabili, anche la organizzazione, con il coinvolgimento di volontari del Touring Club, di intensi percorsi naturalistici, archeologici e storico-artistici. Il lockdown dovuto al corona-virus ha bloccato la sperimentazione di una fruizione compatibile con la tutela assoluta che la vocazione naturale della tenuta richiede. Ma la ripartenza delle prenotazioni, appena possibile, potrà finalmente tener conto del bisogno di natura diventato anch’esso bene pubblico.

[Le foto provengono dall’archivio del Quirinale]

 

(PASQUALE CASCELLA di sé dice: è uno di quei meridionali con l’ansia di andare e tornare. Aveva lasciato Barletta per apprendere il mestiere di giornalista a Roma. Da notista – di sindacale e di politica – a “l’Unità” si è mosso per collaborare con D’Alema alla presidenza del Consiglio, e con Napolitano a Montecitorio e infine al Quirinale, rientrando ogni volta in redazione. Nel 2013 è invece tornato nella città della Disfida per un mandato in proprio, da sindaco. A questo punto, non essendoci più “l’Unità”, se ne è andato in pensione)

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