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Mercoledì 7 Ottobre 2020 07:10

I sindaci umbertini

La storia, gli aneddoti, le meraviglie e le malefatte dei sindaci della Capitale che si sono succeduti negli ultimi 150 anni: cioè da quando la figura politica del sindaco è stata istituita, con l’annessione di Roma allo Stato italiano

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A dieci anni dalla sua unificazione col regno d’Italia e dalla proclamazione a Capitale, Roma è una città che vive un momento di grande fermento ed espansione. Il numero di abitanti è in costante crescita, si sta sviluppando in città un nuovo ceto borghese e cresce una nuova mondanità, più europea e meno provinciale, che si lascia pian piano alle spalle la Roma pontificia per divenire più laica. A tutto questo stanno dando un forte impulso il nuovo re Umberto I e la sua consorte Margherita, che tengono ricevimenti al Quirinale, frequentano i salotti nobiliari, visitano scuole, ospedali, muovendosi sempre fra ali di folla festante.


Augusto Armellini
Leopoldo Torlonia
Ad accogliere il nuovo re, in qualità di sindaco della Capitale, era stato nel 1878 il principe Emanuele Ruspoli, al quale succede nel 1880 Augusto Armellini, figlio di quel Carlo Armellini che nel 1849, insieme ad Aurelio Saffi e Giuseppe Mazzini, aveva guidato il governo della repubblica romana. Poi, dal 1881 al 1882, torna in carica Luigi Pianciani, per un suo secondo mandato, dopo quello che lo aveva visto guidare Roma fino al 1874.
Ma è sotto la guida di Leopoldo Torlonia, sindaco per cinque anni dal 1882 al 1887, che le prime grandi trasformazioni della città cominciano a prendere corpo.
Duca della nobile casata dei Torlonia, Leopoldo assume la carica ad appena ventinove anni. Sotto la sua guida e quasi suo malgrado – essendo Torlonia, da ogni punto di vista, un conservatore – Roma cambia radicalmente, anche su un piano simbolico. È lui infatti che ufficializzerà lo stemma dello scudo rosso porpora con la croce e la scritta SPQR che ancora oggi rappresenta la città.

In accordo con l’animo conservatore di Torlonia, il nuovo simbolo ha fortissimi legami con la tradizione più antica, imperiale e papale. La scelta dei colori (il porpora e l’oro, che in alcuni periodi furono poi banalizzati nel rosso e nel giallo) è dovuta al fatto che essi sono considerati i colori del potere sia nell’Impero Romano, sia nella Chiesa Cattolica.
Secondo una leggenda, tutto nasce da uno scudo di bronzo arrossato, caduto dal cielo durante il regno di Numa Pompilio, durante una processione tenuta per chiedere l’aiuto divino contro una pestilenza. La ninfa Egeria rivelò che chi avesse posseduto questo scudo sarebbe diventato molto potente, perciò esso divenne uno dei simboli del comando di Roma. La piccola croce presente sullo scudo rappresenta la civiltà cristiana e Il motto S.P.Q.R. (Senatus PopulusQue Romanus, senato e popolo di Roma) esalta la collaborazione civica fra classi abbienti e meno abbienti, patrizi e plebei, nobili e popolani.

Dove Torlonia si trovò a dover fare i conti con grandi trasformazioni cittadine, fu soprattutto sul piano delle imprese urbanistiche che Roma stava intraprendendo, stimolate anche dal piano regolatore approvato nel 1873. Nuove costruzioni stavano per sorgere, soprattutto nelle zone limitrofe alla stazione Termini, che era divenuta in pochi anni il principale centro di traffici della Capitale. Stava per iniziare la forte urbanizzazione dell’Esquilino (con la costruzione di piazza Vittorio e delle vie adiacenti), del futuro quartiere Ludovisi (quello cioè attorno all’attuale via Veneto), di piazza Esedra, del quartiere di San Lorenzo, oltre al grande e ambizioso progetto che in quegli anni cominciava a prendere corpo, per la realizzazione di un imponente complesso monumentale dedicato al defunto re Vittorio Emanuele, da far sorgere nell’area di piazza Venezia (l’attuale Altare della Patria).

È curioso notare il doppiopesismo con cui Leopoldo Torlonia affrontò le questioni relative agli abbattimenti di monumenti e palazzi storici, abbattimenti resisi necessari per la realizzazione delle nuove costruzioni e dei nuovi quartieri. Se da un lato non batté ciglio e anzi agevolò in ogni modo la grossa speculazione edilizia che portò alla distruzione della meravigliosa Villa Ludovisi, per innalzare le palazzine che oggi circondano via Veneto (una brutta vicenda di cui abbiamo raccontato i dettagli in un nostro
precedente articolo
) Torlonia lottò invece molto aspramente per impedire la distruzione dei palazzi e delle vestigia presenti nell’area in cui sarebbe dovuto sorgere il Vittoriano. Chissà, forse è solo per un caso che, fra quei palazzi e quelle vestigia da abbattere per fare posto al nuovo complesso monumentale, ci fosse anche Palazzo Torlonia, palazzo di famiglia.

Una posizione attendista Torlonia assunse invece sull’area in cui oggi sorge la Galleria Colonna, accanto a Montecitorio. Per la risistemazione di quella zona, divenuta strategica per via delle vicinanze col nuovo Parlamento italiano, era infatti prevista la distruzione del seicentesco palazzo Spada al Corso. Un abbattimento che aveva sollevato polemiche e l’opposizione dei proprietari. La questione si protrarrà per diversi anni e si concluderà solo nel 1888, quando Torlonia ormai non è più sindaco, nel momento in cui i proprietari accetteranno di stabilirsi in un nuovo palazzo costruito nel neonato quartiere Ludovisi – la struttura in cui ha sede l’attuale ambasciata degli Stati Uniti – lasciando così carta bianca alla demolizione del palazzo seicentesco su via del Corso.

Ma un certo attendismo Torlonia lo dimostrerà anche in relazione a una questione spinosa, destinata ad assumere un fortissimo valore simbolico, tanto da diventare centrale nello scontro politico di quegli anni, non solo romano, ma anche nazionale: la realizzazione di una statua dedicata a Giordano Bruno. Di quell’opera si parlava già da diverso tempo, tanto che nel 1877 l’allora sindaco Pietro Venturi aveva stanziato 200 lire per la sua costruzione, ma la fortissima opposizione dei cattolici aveva bloccato tutto. Nel 1885 si forma però un nuovo comitato per la costruzione del monumento, a cui aderiscono alcuni fra i maggiori intellettuali, italiani e internazionali, dell’epoca: da Victor Hugo a Michail Bakunin, da Giosuè Carducci e Henrik Ibsen e poi ancora Cesare Lombroso, Pasquale Villari, Giovanni Bovio, in un clima di scontro frontale fra laici e filoclericali.
È in questo clima che Leopoldo Torlonia decide di rendere omaggio al Papa Leone XIII, in occasione dei suoi 50 anni di sacerdozio. L’omaggio viene letto come una presa di posizione contro la statua e come un grave affronto alla laicità delle istituzioni. Tanto che il primo ministro italiano Francesco Crispi, per riuscire a placare le polemiche, decide di costringere Torlonia a rassegnare le sue dimissioni da sindaco.


Alessandro Guccioli
Gli succede, il primo gennaio 1888, Alessandro Guccioli, esponente della sinistra storica, che darà il via libera definitivo alla costruzione della statua, la cui inaugurazione avverrà nel giugno 1889 in Campo De’ Fiori, tra le proteste feroci di Leone XIII, che a lungo minaccerà per questo di trasferire la sede papale da Roma a Vienna.

Gli echi di quelle polemiche non si spegneranno nemmeno quarant’anni più tardi: tra le clausole che la Chiesa proporrà a Benito Mussolini per la firma dei Patti Lateranensi, c’è infatti anche l’abbattimento della statua di Giordano Bruno. Mussolini però, forse memore del suo ormai lontano passato anticlericale, si rifiuterà di accettare la proposta, limitandosi a vietare le cerimonie che ogni anno, il 17 febbraio, ricorrenza della morte del filosofo, si svolgevano in Campo De’ Fiori.

Guiccioli si troverà anche a inaugurare i lavori di quello che i romani chiamano da sempre il Palazzaccio, ovvero il nuovo Palazzo di Giustizia, la cui costruzione verrà poi completata nel 1911. Sarà questa una delle opere più controverse della cosiddetta Terza Roma (cioè la Roma neo-capitale d’Italia), non solo per le sue pompose caratteristiche architettoniche, non solo perché stimolerà, nelle sue adiacenze, la nascita di lussuose palazzine, inizialmente non previste dal piano regolatore, laddove per secoli i romani avevano potuto godere di un libero pascolo – il nome di Prati, dato poi al rione, è dovuto proprio a quell’antica funzione dell’area – e nemmeno solo perché il palazzo sorge su un terreno paludoso, inadatto a sostenere una costruzione così imponente, tanto che, alla fine degli anni Sessanta del Novecento il Palazzaccio dovrà essere precipitosamente evacuato a causa di numerosi crolli. Le polemiche nasceranno soprattutto (e in modo paradossale, visto il compito cui è da sempre destinata la struttura) perché, per la sua costruzione e i relativi appalti, si verificheranno fenomeni di corruzione talmente evidenti, da costringere il governo italiano a istituire un’apposita inchiesta parlamentare. L’inchiesta inizierà i suoi lavori a costruzione ultimata, nel 1912, senza riuscire mai né a fugare i sospetti di corruzione né a comprovare in modo convincente le gravi irregolarità di cui si sospettava.


Onorato Caetani
Intanto il bilancio comunale, visto il fervore di interventi pubblici per le tante trasformazioni urbanistiche della città, comincia a mostrare elementi di forte dissesto. Dopo un breve ritorno in carica di Augusto Armellini, nel 1890 viene perciò chiamato a guidare la città un commissario regio, Camillo Finocchiaro Aprile, con il compito principale, se non unico, di riportare in pareggio le casse del Comune.
Questo pareggio di bilancio sarà anche il faro dell’azione politica del successivo sindaco, Onorato Caetani, a cui succederà nel 1892 l’elezione dell’anziano principe Emanuele Ruspoli.

Quello di Ruspoli è in realtà un ritorno. Egli era infatti già stato sindaco 12 anni prima. Però la città che trova in questo suo secondo mandato è una Roma diversa da quella che aveva conosciuto. La città di fine Ottocento è ormai a due facce. Da una parte l’intenso sviluppo del tessuto economico e urbanistico l’ha resa il centro del bel mondo nazionale, che si muove tra caffè, palazzi del potere e vita mondana, in un clima quasi decadente che Gabriele D’Annunzio ben descriverà nel suo romanzo “Il piacere”. Dall’altra, le classi popolari sono in fermento, sempre più attratte dalle nuove idee socialiste, con il progressivo moltiplicarsi di scioperi, di scontri e di attentati dinamitardi in varie zone della città, soprattutto in occasione delle manifestazioni che hanno luogo per la ricorrenza del Primo Maggio.

In mezzo a tutto questo, continua aspro anche il conflitto fra lo Stato e la Chiesa, col papa Leone XIII che, proprio in quegli anni, forse per autentica sensibilità sociale, forse per alimentare una sottile polemica col governo in carica – perché l’esecutivo mostra non poche difficoltà nel risolvere i problemi delle classi meno abbienti e delle relative lotte di classe apertesi – promulgherà l’enciclica Rerum Novarum, considerato da molti un testo di ispirazione quasi socialista.

Quella di fine Ottocento è anche una Roma scossa dallo scandalo finanziario della Banca Romana, che esploderà virulento fra il 1892 e il 1894 e nel quale resteranno, a vario titolo, coinvolti numerosi esponenti di spicco della politica capitolina e nazionale (da Crispi, a Giovanni Giolitti, all’ex sindaco Torlonia). Uno scandalo tanto forte e potente da far crollare il governo. Gestire Roma, in questo clima politico, diventa perciò di giorno in giorno più difficile.


Prospero Colonna di Paliano
Se ne accorgerà anche il successore di Ruspoli, Prospero Colonna di Paliano, eletto sindaco nel 1899 dopo la morte del predecessore (Emanuele Ruspoli sarà il primo sindaco di Roma a spirare mentre è ancora in carica, come accadrà, quasi un secolo dopo, anche a Luigi Petroselli).

È Colonna a introdurre Roma nel nuovo secolo ed è sempre lui a inaugurare il traforo sotto il Quirinale che ancora oggi unisce via del Tritone e via Nazionale (opera d’ingegneria piuttosto ardita per l’epoca) e la monumentale fontana delle Naiadi al centro di Piazza dell’Esedra (opera di Mario Rutelli, bisnonno del futuro sindaco Francesco). Però quando, grazie anche ai buoni rapporti intrecciati col barone Pierre De Coubertin, Prospero Colonna riesce ad ottenere per Roma l’assegnazione della quarta olimpiade moderna della storia (prevista per il 1908), con suo stupore, il governo italiano, presieduto da Giovanni Giolitti, non gli fornisce alcun sostegno, né politico né economico: sostegno che sarebbe stato invece indispensabile per rendere operativo il progetto, dato anche il dissesto finanziario in cui avevano ripreso a versare le casse del Comune.

Comincia forse in quel momento quello strano, conflittuale rapporto fra governi italiani, sindaci di Roma e comitati olimpici internazionali delle varie epoche, che si riprodurrà molto simile anche cento anni più tardi, in tempi a noi vicini, con candidature olimpiche avanzate e poi improvvisamente ritirate, annunci disattesi, strutture sportive faraoniche mai completate. Visto il disinteresse del governo, la designazione di Roma quale sede olimpica, che era stata già formalmente accettata dal sindaco, viene perciò fatta decadere e Colonna, amareggiato, si dimette dall’incarico nell’ottobre del 1904.


Enrico Cruciani Alibrandi
Gli succederanno, prima l’ingegnere Enrico Cruciani Alibrandi (sindaco fino al luglio 1907), quindi Ernesto Nathan, colui che, a detta di molti analisti e molti storici, viene considerato il più competente e capace fra i sindaci della storia di Roma. È proprio di lui, della sua figura e del suo ruolo, che parleremo in dettaglio nel prossimo capitolo delle nostre “Storie di Campidoglio”.

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