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Giovedì 29 Ottobre 2020 17:10

Dal “Kazakistan” agli USA: Borat contro Trump, su Amazon Prime

La seconda ondata del Covid-19 si abbatte sulle sale cinematografiche romane, costrette a chiudere almeno per un mese con gravi 
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La seconda ondata del Covid-19 si abbatte sulle sale cinematografiche romane, costrette a chiudere almeno per un mese con gravi danni all’industria. In una situazione di nuova austerità in termini di svago e impegno, all’appassionato della Settima Arte non resta che affidarsi alle piattaforme di streaming che ancora non assorbono le recenti uscite in sala, bensì si ritrovano a godere di un’esposizione maggiorata per quanto concerne le programmazioni già stabilite.

Negli USA è tempo di Election Day, con lo scontro a furia di colpi talvolta bassissimi tra il Presidente repubblicano Trump e il democratico Biden e per Amazon Prime non potrebbe esserci momento migliore per l’uscita del seguito di uno dei prodotti più iconoclasti degli anni Zero. Quel Borat impersonato dal comico londinese Sacha Baron Coen, che nel 2006 avevamo già incontrato sul grande schermo in Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan, e che partendo da un celebre TV show della britannica Channel 4 nei primi anni 2000 (ovvero l’Ali G. Show) riuscì ad imporsi come prototipo di “mockumentary”. Ovvero un genere sub-cinematografico che nei decenni dai ’70 ai ’90 era perlopiù relegato ai circuiti underground che trasversalmente univano i continenti (con grande partecipazione dell’Italia con i suoi “mondo movies”) e che, grazie all’avvento della produzione in digitale su larga scala, divenne una tendenza anche commerciale del primo decennio del 2000 per poi scemare nella seconda decade.

Il mockumentary o falso documentario propone una narrazione ibrida in grado di fondere elementi del reale e meccanismi di fiction palesemente messi su carta bianca. Non ha la velleità di porsi come pura realtà o osservazione naturalistica della stessa, come a Roma si faceva con il Neorealismo o in Unione Sovietica con il Formalismo dei primi anni del Muto. E non è neanche del cinéma verité di stampo francofono o il Dogma 95, ovvero movimenti che partivano dall’esigenza di staccarsi dall’artifizio scenico come ultima possibile idea d’avanguardia. Il mockumentary sguazza alla grande nella voglia di incuriosire e dare spettacolo.

E un comico figlio di ebrei ortodossi (e quindi con un’eredità culturale che affonda le sue radici nei fratelli Marx o anche in Woody Allen) in questo ci va a nozze. Borat era uno dei personaggi dell’Ali G. Show, spettacolo di cabaret di cui Baron Coen era unico mattatore: si presenta allo spettatore, nei due film come in TV, come il quarto maggiore giornalista di un Kazakistan che più che una ex Repubblica Socialista Sovietica di religione islamica, quale di fatto è, somiglia di gran lunga ad un immenso villaggio rurale zingaresco, dove vige un patriarcato ostentato, le donne dormono in gabbie e lo sciovinismo è tale da coinvolgere pure animali e vegetazione nelle sue dinamiche. È sempre in giro con un abito grigio tagliato male, dei baffi da uomo virile di società non secolarizzata e parla in inglese con un accento slavo evidente che lo presta a contraddizioni linguistiche imbarazzanti.

Nel 2006 Borat andava in America per osservare la società degli yankees e innamorarsi di Pamela Anderson. Oggi viene mandato per conto del suo paese con la missione di porgere in dono a Donald Trump una scimmia che è anche la più grande porno attrice del paese. Ma in realtà Borat si ritrova per le strade del Texas in compagnia di sua figlia quindicenne, tenuta all’oscuro di ogni diritto di donna e spinta a dormire in gabbie, che deve necessariamente imparare dalle coetanee americane a essere attrattiva per uomini potenti come Mike Pence o Rudolph Giuliani (politico repubblicano vicino a Trump), quest’ultimo non solo incontrato di persona, ma anche colto a lasciarsi andare con la minorenne durante un’intervista sul Coronavirus e le responsabilità del governo cinese nello scoppio della pandemia. In mezzo ci sono i razzisti repubblicani che pensano che i democratici siano peggio del Covid, i balli delle debuttanti, i centri di chirurgia estetica… insomma la vera America di questi anni ripresa con occhio cinico e beffardo.


Il film mostra in egual misura i punti di forza e le debolezze del genere: da un lato il black humour funziona di gusto e graffia spingendosi oltre le aspettative dello spettatore, dall’altro non riesce a calibrare alla perfezione il rapporto tra gli elementi di realtà e struttura narrativa atta a dare una forma di racconto compiuto. Il finale a sorpresa ha del geniale, ma in fondo non riesce a portare in alto un film inchiodato, esattamente come il precedente del 2006, alla personalità istrionica del personaggio, che macchietta nasce e tale rimane. Certo, Donald Trump, che all’uscita del film su Amazon Prime ha bollato Baron Cohen come un impostore, non fatica ad abbassarsi ai livelli del Borat filmico.

In mezzo a tante macchiette, vere o autentiche, la figura migliore la fa il Kazakistan, quello vero e non ricreato a fini di commedia: l’ex Repubblica sovietica, che nel 2006 si sentì offesa dal film, ha sdrammatizzato l’uso stereotipato e strumentale da parte di Cohen schierandosi con la pellicola, avendo giovato peraltro di un turismo derivato dalla curiosità degli occidentali per il prodotto. In fondo basterebbe poco per vivere con intelligenza, ad ogni latitudine.

 

Valerio Principessa

 

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