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Venerdì 22 Gennaio 2021 12:01

La storia di Mastro Titta

Il suo nome è Giambattista Bugatti, ma a molti questo nome dirà poco. L’11 giugno del 1864 termina il suo mandato e Pio IX il 28 febbraio dello stesso anno gli conferirà una pensione mensile pari a 30 scudi “vista la di lui senilità e i lunghissimi servigi”. Gli succederà Vincenzo Balducci, suo aiutante già [...]

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L’11 giugno del 1864 termina il suo mandato e Pio IX il 28 febbraio dello stesso anno gli conferirà una pensione mensile pari a 30 scudi “vista la di lui senilità e i lunghissimi servigi”.

Gli succederà Vincenzo Balducci, suo aiutante già dal 1850, ma il 20 settembre del 1870, con l’apertura della Breccia di Porta Pia, decade lo Stato papale, quindi anche il mandato del successore di Giambattista Bugatti.
Parliamo di ‘Mastro Titta’, il boia di Roma.

Mastro Titta non sarà presente all’evento di Porta Pia perché già morto il 18 giugno del 1869.

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Il suo decesso è registrato presso la parrocchia di Santa Maria Traspontina a cui apparteneva e in cui assai devotamente si recava per le funzioni.

La chiesa era vicina a dove abitava, il boia infatti viveva a Borgo Pio dov’è ancora visibile la facciata della sua casa ( Via del Campanile), sita in prossimità della sua bottega di ombrellaio che era in Via degli Ombrellari.

Questo, infatti, era il suo mestiere quando non era chiamato a giustiziare per conto dello Stato Vaticano.

Mastro Titta operava in tutto il territorio papale, che allora comprendeva circa un terzo del suolo Italiano.

A Roma, invece, eseguiva le sue esecuzioni in Piazza del Popolo, in Campo dei Fiori, a Ponte Sant’Angelo, in Via della Berlina (oggi via del Paradiso) e in Via dei Cerchi.

Giustiziò 514 condannati (516 se si contano altri due non certi ma a lui attribuiti) dal 1796 al 1864, tutti giustiziati con la perizia e l’umanità che lo contraddistinguevano.

Fondamentale era infatti la professionalità che il boia doveva dimostrare nel suo servizio. Come?
Non doveva far soffrire le proprie vittime e non spargere più sangue del dovuto.

Se l’esecuzione diveniva cruenta, il popolo turbato e offeso da questa “mancanza di tatto” si sarebbe anche potuto rivoltare contro l’esecutore, il quale avrebbe rischiato il linciaggio.

Quando si veniva a sapere di una esecuzione, il popolo si radunava per assistere.
Era tradizione che sulla piazza, durante lo “spettacolo”, i padri schiaffeggiassero come monito i loro figli affinché essi si ricordassero sempre di rispettare le leggi per non rischiare di finire sulla forca.

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Mastro Titta non indossava il cappuccio come si crede, questa è una revisione romantica dei tempi moderni e del cinema.

Il boia anzi doveva essere ben visibile e riconoscibile, operava dunque sempre a viso scoperto, quale degno rappresentante della legge.

Coloro che portavano il cappuccio erano invece i volontari appartenenti a delle congreghe religiose. Autorizzati dal papa, accompagnavano il condannato al patibolo rincuorandolo.

L’uso del cappuccio da parte di questi volontari si spiega con il loro ruolo: a differenza del boia, che operava per mestiere, loro offrivano supporto caritatevole, dunque agivano per un atto di umiltà e non per orgoglio personale.

A viso scoperto avrebbero rischiato di esaltare il loro ego personale che li avrebbe sviliti come rappresentanti della pietà divina.

L’iconografia spesso ci presenta il boia con il cappuccio in testa. In realtà si tratta di un’ errata rappresentazione della sua figura che, seppur gli ha donato quel fascino misterioso ed evocativo che conosciamo, ne ha reso l’immagine completamente antistorica.

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Le autorità religiose davano per scontato che il condannato ammettesse la propria colpa presentandosi purificato al cospetto di Dio.

Una tra le tante comunità di volontari esistenti a Roma era una pia confraternita fiorentina (l’Arciconfraternita di San Giovanni decollato).

Questi adepti, più preoccupati della salute dell’anima che non di quella del corpo del condannato (paziente), si impegnavano maniacalmente ed alacremente facendo anche ricorso alla tortura fisica o psicologica per ottenere il suo pentimento.

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Solitamente, la condanna a morte veniva annunciata il giorno prima, quindi il lavoro di questi volontari era molto impegnativo, soprattutto quando capitava un condannato particolarmente reticente.

Capitava, in questi casi, che l’esecuzione finisse per essere procrastinata fino a che non avessero ottenuto (con le buone o con le cattive) il pentimento (conversione).

Mastro Titta era un professionista, dunque si adeguo’, negli anni, alle nuove ‘tecniche’: l’impiccagione, la ghigliottina, la scure, la mazza…

Alla fine di alcune esecuzioni il corpo del giustiziato (se il reato era stato particolarmente cruento), veniva squartato e appeso alle mura o alle porte cittadine come monito.

Mastro Titta ci lascia un taccuino sul quale sono annotati i nomi delle sue vittime, il motivo della condanna, la data e il luogo dell’esecuzione.

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Alcuni suoi attrezzi del mestiere, insieme al suo mantello rosso, sono conservati oggi nel Museo della criminologia in via del Gonfalone, presso quello che era il Palazzo del Gonfalone in via Giulia, stabile voluto da Leone XII nel 1827 ed usato all’epoca come prigione minorile.

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