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Venerdì 11 Giugno 2021 13:06

Operatori umanitari uccisi in Sud Sudan. Cuamm: «Sotto choc ma restiamo»



Dopo l'agguato al vescovo Carlassare, il 7 giugno sono stati uccisi due membri dello staff di Medici con l'Africa. Il racconto di Chiara Scanagatta, responsabile progetti

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Gli operatori umanitari continuano a essere presi in mira in Sud Sudan e in tanti altri Paesi del mondo. Gli ultimi a perdere la vita, il 7 giugno, in una zona  periferica della città di Yirol nel Lake State, sono stati due dipendenti sud sudanesi di Medici con l’Africa-Cuamm, mentre tornavano dalla consegna di supplementi nutrizionali prima della stagione delle piogge: Moses Maker Manyual, 33 anni, nutrizionista, e l’autista Abraham Gulung, 32 anni. Entrambi viaggiavano nella prima vettura di un convoglio umanitario, con tanto di scorta di sicurezza. Sono stati sorpresi da una sparatoria stile far west, per mano di uomini armati. Gli agenti della sicurezza hanno messo in fuga i malviventi ma per Moses e Abraham non c’è stato nulla da fare. Entrambi avevano famiglia in altre zone del Paese. I funerali sono stati già celebrati secondo le cerimonie tradizionali, una sorta di commistione tra religione ufficiale e riti locali. Il Cuamm ha sede a Padova ed è una delle più note organizzazioni italiane che formano medici e volontari e gestiscono strutture sanitarie in Africa. In questi giorni sono tutti sotto choc.

Vicini al popolo sud sudanese. «Non sappiamo chi abbia compiuto questo gesto atroce, nemmeno il perché. Forse una regolazione di conti tra clan – ha detto don Dante Carraro, presidente di Medici con l’Africa-Cuamm -. Siamo scossi e viviamo con grande preoccupazione questa fase di transizione verso la pace che si sta con tanta fatica costruendo – ha aggiunto -. Per questo la prossima settimana raggiungerò i nostri in Sud Sudan per sostenerli e incontrare le autorità locali. È forte la nostra determinazione ad essere vicini al popolo sud sudanese pur tra tante difficoltà». Per Chiara Scanagatta, responsabile dei progetti Cuamm in Sud Sudan, da poco rientrata da una visita in quelle zone, «la dinamica è chiara ma il movente no. Si pensa ad una conflittualità tra clan legata al controllo dei terreni dove far pascolare il bestiame. Oramai essere operatori umanitari non è più un deterrente.  Le indagini sono in corso e per ora non c’è stato nessun arresto – prosegue -. Non sembra un tentativo di rapina, non è stato rubato niente. Le questioni personali o faide familiari non sono da escludere ma solitamente quando sono in pericolo ci avvisano. Ora si dialogherà con le autorità per capire come garantire migliori condizioni di sicurezza. Noi ovviamente restiamo accanto alla popolazione».

Scanagatta conosce benissimo quelle zone perché è stata country manager per quattro anni, fino al 2016, e da allora vi si reca in missione per lunghi periodi. Un mese fa era con Moses e Abraham. Moses lavorava come nutrizionista a Yirol da due anni: «Era la persona giusta per quell’impiego – racconta -. Era una scheggia, sempre attivo e in movimento, voleva capire e voleva fare, si spostava in continuazione da un posto all’altro per fornire i supplementi nutrizionali alla popolazione malnutrita. Era molto coinvolto, gli piaceva quello che faceva». Anche Abram, il giovane autista, amava il suo lavoro, «si interessava a quello che facciamo, era piacevole stare con lui. Ci tengo a sottolineare il ruolo degli autisti: sono i nostri angeli custodi». Anche se entrambi erano molto schivi e al Cuamm non sanno molto delle rispettive famiglie, «faremo il possibile per esprimere la nostra vicinanza».

Purtroppo il Lake State, la regione dove il vescovo di Rumbek Christian Carlassare ha subito un agguato lo scorso aprile, «è sempre stato un territorio con altissimo livello di conflittualità – spiega Scanagatta -. È una zona dinka, dove vivono pastori nomadi che lottano per il controllo del territorio dove far pascolare il bestiame». Per chi ama questo Paese è una stretta al cuore vedere che, nonostante i percorsi di dialogo e riconciliazione fatti a livello istituzionale, non si riesca a costruire una vera pace sul campo. «La violenza non cessa ma la popolazione non ne ha colpa e i bisogni sono tantissimi – osserva -. Forse è necessario insistere sulla formazione delle nuove generazioni, serve un cambiamento culturale».

Il progetto in Sud Sudan è il più grande e importante gestito dal Cuamm in Africa. Il motivo è la particolarità del sistema sanitario sud sudanese, che usa dare in appalto alle ong la gestione dei servizi, pur restando sotto la guida del ministero locale. Il Cuamm svolge un ruolo di accompagnamento, formazione e assistenza, integrando anche i miseri stipendi dei governativi. Perciò affiancano in 5 contee circa 3mila/3.500 operatori tra personale medico e paramedico sudsudanese, con 5 ospedali e 135 strutture sanitarie periferiche. Il team Cuamm nell’intero Paese è di 301 persone, di cui 245 nazionali e 56 internazionali.

Le reazioni istituzionali. L’Onu ha invitato ad indagare sugli omicidi con urgenza e il ministero degli Affari esteri italiano ha condannato fermamente in un tweet l’attacco al convoglio umanitario, esprimendo «profondo cordoglio alle famiglie dei due cooperanti sud-sudanesi rimasti coinvolti nel tragico evento». Nel Sud Sudan si registra un forte aumento di omicidi e violenze, con oltre 200 vittime da metà maggio. Solo quest’ anno nel Paese sono stati uccisi 4 operatori umanitari, almeno 128 dal 2013 ad oggi. (Patrizia Caiffa)

11 giugno 2021

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