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Giovedì 20 Gennaio 2022 12:01

Memoria sportiva. Il Rugby è di destra o di sinistra? Parliamone

L’anno è il 1823. La cittadina di chiama Rugby ed è situata a circa una ventina di chilometri ad est 
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L’anno è il 1823. La cittadina di chiama Rugby ed è situata a circa una ventina di chilometri ad est di Coventry, presso la parte orientale del confine della Contea di Warwickshire con il Northamptonshire ed il Leicestershire, Regno Unito. E’ lì che, durante una partita di pallone, lo studente William Web Ellis afferra il pallone con le mani (cosa al tempo permessa) e, dopo avere attraversato tutto il campo di gioco, schivando tutti gli avversari, lo deposita in fondo alla rete dell’altra Squadra. (nella foto la Statua di William Webb Ellis che ha scritto le regole dello sport denominato Rugby (fonte
https://www.emotionrit.it/2017/03/inghilterra-cosa-vedere-rugby/
)


Statua di William Webb Ellis

È così che nasce il Rugby, sport inventato da un rampollo della buona borghesia britannica, ma che presto si diffuse tra i minatori inglesi e scozzesi. In Italia, a partire dagli anni ’50 del ‘900, si è per lungo tempo ritenuto che quello della palla ovale fosse uno sport fascista, per via del suo carattere di gioco duro e del favore con cui lo accolse il fascismo.

Oggi non è più così, anche se esistono Squadre di Rugby dichiaratamente di destra – come quella degli Amatori Catania, Squadra fondata alla fine degli anni ’60 da Benito Paolone, legato a doppio filo prima al Movimento Sociale Italiano e poi ad Alleanza Nazionale – o quella degli All Reds Rugby Roma – dichiaratamente di sinistra, che si allena presso il campo del Centro Sociale Acrobax. O ancora quella dei palermitani Briganti di Librino, nata in uno dei Quartieri più problematici della città siciliana, ad opera di un gruppo di ragazzi, tendenzialmente o dichiaratamente di sinistra che hanno esplicitato più volte il loro voler praticare un “rugby sociale”.

Al di là della polemica, trita e ritrita, se il rugby sia sport di destra o di sinistra, ho pensato – anche sulla base di una storia partigiana che ho recentemente scoperto e che voi leggerete qualche riga più sotto – fosse il caso di scriverne per – come dico e scrivo spesso – “capire e capirci”. Perciò, avanti con la Storia e le storie.

Dunque, quando il rugby a 15 (ne esiste anche una versione che si gioca con 12 giocatori e una versione adattata, per giocatori disabili) arriva in Italia, nel 1911 grazie a Stefano Bellandi, arbitro di Calcio ma appassionato di rugby, questo sport non ha molta fortuna. Quando il fascismo, nel 1922, prende il potere non lo ama molto, poiché lo considera uno sport “troppo britannico”. Ma poi lo rivaluta sia perché al duce piace, sia per il suo carattere di sport di combattimento, maschio e cameratesco, ma gli cambia nome: sarà chiamato “lo sport della palla oblunga di cuoio”. Capita l’antifona ducesca, Achille Starace, da Segretario del PNF, lo raccomanda per le giovani generazioni fasciste. Dunque, il rugby prende piede e si sviluppa enormemente. I giovani italiani lo praticano con entusiasmo e, nel 1928, nasce la Federazione Italiana Rugby (FIR).

E’ noto – ce lo racconta anche Ruggero Zangrandi, in uno dei suoi importanti lavori di scavo nella Storia e nelle storie – come i luoghi in cui il fascismo faceva praticare lo sport ai giovani, così come i Littoriali, fossero sempre affollati dai ragazzi e ragazze non per forza fascisti convinti. E dunque anche i Campi in cui si praticava il rugby erano affollati da giovani che, in molti casi, proprio su quei campi iniziarono a capire cosa fosse il fascismo e, una volta cresciuti, sarebbero diventati dei lucidi antifascisti, spesso dei Partigiani combattenti. Lo prova anche la storia minima (solo perché poco nota) a cui accennavo sopra e che ho scoperto grazie alle quotidiane “pillole antifasciste e di Resistenza” che mi arrivano dall’ANED di Verona, per mezzo del Profilo Instagram dell’’ANED Nazionale. Eccola brevemente raccontata.


Aldo Battagion nasce a Bergamo, il 20 Novembre del 1922, in una famiglia convintamente antifascista. Ha, da subito, le idee molto chiare e si rifiuta di indossare la divisa dei balilla. Cede solo per poter giocare a rugby, lo sport di cui è appassionato.

Nel 1938, Battagion entra a far parte della squadra della “Gil Bergamo” e a 17 anni disputa il suo primo campionato in Serie A. Chiamato a combattere, all’8 Settembre ’43, è rinchiuso in un Campo di Raccolta per essere deportato, ma grazie al padre riesce a rientrare a Bergamo. Sceglie, da subito, la parte giusta della Storia e sale in montagna con le Formazioni Partigiane della sua zona. Dopo quattro mesi di lotta però, viene catturato durante un rastrellamento. Nel Carcere di Bergamo è torturato ma non parla. Viene trasferito al Carcere di San Vittore, a Milano e successivamente al Campo di transito di Bolzano Gries. II 7 Settembre del 1944, Battagion è deportato a Dachau, il 5 Ottobre dello stesso anno, classificato come “Schutz” (detenuto politico), gli viene attribuita la matricola N.113154. Non si conoscono molti particolari sull’internamento di Battagion, ma un ex deportato, Giuseppe Gregorio Gregori, in un’intervista relativa a Giovanni Palatucci (ex Questore di Fiume che salvò molti ebrei e per questo venne arrestato e deportato) parla anche di lui: “Nella baracca c’era Aldo Battagion, di Bergamo, che parlava tedesco. Quando morì un polacco, per tifo, Aldo tradusse gli ordini dei tedeschi dicendo che chi portava fuori il cadavere e lo lavava, avrebbe avuto una razione in più di cibo. Io accettai e feci quel servizio più volte.”.


Aldo Battagion viene liberato il 29 Aprile del 1945. Dopo la guerra riprende a giocare a rugby nella Squadra della sua città natale, è convocato in Nazionale e il 28 Marzo del 1948 esordisce contro la Francia; il 23 Maggio dello stesso anno gioca la sua seconda partita con la maglia azzurra contro la Cecoslovacchia. Nel 1951 inizia la carriera di allenatore alla guida della “Rugby Bergamo”. Aldo Battagion muore il 15 Marzo del 2007, all’età di 85 anni.

Non conosco e non ho trovato altri nominativi di rugbisti che abbiano militato nella Resistenza, ma per venire a giorni più recenti ricordo che il ventenne Ernesto Guevara de la Cerna Linch, più tardi conosciuto come il Che, amava molto il rugby e lo praticò, nel 1948, nella Squadra argentina dell’Atalaya e quella pratica sportiva non fu estranea – a detta di chi lo conobbe in campo e fuori – a fargli cambiare radicalmente la visione del mondo ed affinare anche le sue innate qualità di stratega militare.

Sempre per restare in Argentina – ma in tempi ancora più vicini ai nostri – occorre ricordare che, durante gli anni della dittatura militare dei generali golpisti, tra gli oltre 30mila desaparecidos, per molti dei quali non è stato possibile ritrovare il cadavere, figurano anche diversi giovani giocatori (praticamente la totalità) del Rugby Club La Plata. Infatti diciassette giocatori di quella Squadra, in quegli anni, spariranno, saranno uccisi o saranno gettati vivi nel vuoto dei voli della morte. La loro storia la racconta Claudio Fava nel suo libro intitolato “Mar del Plata” (Add Editore, 2018), con le parole dell’unico giocatore sopravvissuto alla mattanza dei militari: Raul Barandiaran.

 

Dunque, anche la palla ovale ci racconta storie interessanti. Certo storie minime, come minimo (leggi minore) è considerato ancora oggi questo sport, sebbene in questi anni abbia fatto passi da gigante in fatto di popolarità tra i tifosi ed i praticanti. Ciò anche grazie alla nostra Nazionale e a uomini del calibro di Sergio Matteo Parisse, nato proprio a La Plata, che oggi milita, come terza linea, nella Squadra del Tolone e di Martin Leandro Castrogiovanni, anche lui argentino di Paranà, che è stato, prima di lasciare il campo definitivamente, uno dei più forti piloni della nostra Nazionale a 15.

Altra particolarità del rugby è data dalla diversa origine etnica e dalla differente provenienza geografica di molti suoi giocatori, che militano anche nel nostro Campionato e nella nostra Nazionale maschile (ce n’è anche una femminile) e alcuni di loro hanno dichiarato apertamente la loro omosessualità, senza che questo coming out abbia destato sospetti o perplessità in quel mondo sportivo.

Già perché il rugby è, forse, lo sport più multietnico che si giochi oggi nel nostro Paese e – al di là dell’aspetto di combattimento che lo fa sembrare uno sport violento e maschio – è, invece, un autentico gioco di squadra nel quale vige un grande rispetto per l’avversario con il quale si combatte sì duramente in campo, negli 80 minuti di gioco, ma con il quale non si hanno mai scontri né verbali né fisici, sia dentro che fuori del campo. E questo rispetto accumuna sia i giocatori in campo che i tifosi sugli spalti.

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