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Venerdì 20 Gennaio 2023 12:01

Quando a Vigna Clara si diceva “oggi andiamo a Roma”

Sono passati quasi 70 anni da quando vivo a Vigna Clara e i ricordi sono avvolti in una specie di nebbiolina piuttosto fitta che ne sbiadisce i contorni e li rende confusi. A volte parecchio. Ma mi pare che si chiamasse ‘Uno’ il tram che partiva da piazzale Flaminio, percorreva tutta la Flaminia urbana, attraversava […]

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Sono passati quasi 70 anni da quando vivo a Vigna Clara e i ricordi sono avvolti in una specie di nebbiolina piuttosto fitta che ne sbiadisce i contorni e li rende confusi. A volte parecchio. Ma mi pare che si chiamasse ‘Uno’ il tram che partiva da piazzale Flaminio, percorreva tutta la Flaminia urbana, attraversava sferragliando ponte Milvio, che mio padre chiamava ponte Mollo, e usava il piazzale davanti alla chiesa per girare in tondo e rimettersi col muso verso la città.

La domenica, per chi stava di là, era ancora il mezzo prediletto per la gita fuori porta. Ma noi eravamo di qua, un chilometro più su, sulla Cassia. Nella neonata Vigna Clara.

Stava per cominciare la seconda metà degli anni ’50. E si intravedeva la luce in fondo al tunnel dopo lo sfacelo della guerra. L’Italia stava crescendo.

La
legge Tupini
per l’edilizia economica e popolare stava funzionando da volano per l’economia – adesso ci si riprova con i bonus – e le cooperative che avevano comprato i terreni dall’Immobiliare intorno all’avveniristico complesso residenziale degli Stellari a Vigna Clara – adesso sono diventati famosi perché ci è andato a vivere Totti – avevano portato qualche centinaio di famiglie della ‘buona borghesia’ romana in esilio, come diceva mia madre, laddove prima crescevano le viti della contessa Clara Stelluti. Cioè in campagna.

Insegnava ancora, mia madre, allora, alle medie, in una traversa di viale Parioli. Ma la domenica, in primavera e in autunno, la dedicava alla ricerca delle proustiane madeleinettes che per lei erano nel Tridente. Babbuino, Corso e Ripetta, poi Scrofa. Non per niente aveva vissuto la sua infanzia e la sua giovinezza in via Rasella.

Nel ’44, quando ci fu il botto, abitava con mio padre in Via Dessié, vicino alla batteria Nomentana. Con i bombardamenti se la sono vista brutta parecchie volte.

La prima cattedra gliela avevano data a Terni, al Tacito, ma poi era riuscita ad avere il trasferimento a Roma. Sì, perché lei, che era un’archeologa che si era fatta due anni a Creta con la scuola archeologica italiana, era stata costretta a passare all’insegnamento perché il fascismo si era inventato che le donne non potessero fare carriera nella pubblica amministrazione e lo stipendio come impiegata del ministero non sarebbe stato sufficiente a mantenere lei e la madre. Gli insegnanti allora guadagnavano di più. Erano considerati ben pagati. Allora…

E così, spesso, la domenica da Vigna Clara scendevamo in macchina a ponte Milvio. La Cassia era a due sensi. E… tutti sul tram, perché era divertente. Se a qualcuno fosse venuto in mente di parlare di un problema di parcheggi, le risate si sarebbe sentite anche a piazza del Popolo.

Un giro per il Centro, una visita alla Pietà della cappelletta di San Silvestro, che mamma salutava come se Maria fosse un’amica. Le piaceva entrare dalla porticina di via del Gambero perché le sembrava più intimo. E devo confessare che, ancora adesso, se mi capita, quando me la trovo davanti così quasi all’improvviso, mi fa un certo effetto. La messa la prendevamo lì o in un’altra delle tante chiese del centro della Capitale del Cattolicesimo.

Mio padre immancabilmente in piedi con il cappello in mano, lui ateo vero e convinto, ma credente, fortemente credente nella nobiltà del Rispetto.

Ricordate i ‘rispetti’ della tradizione agricola italiana? Quando si arava un campo non si arrivava mai fino al fosso o al fossetto che rigorosamente lo delimitava.  Ci si fermava prima, una metrata e mezzo, due, prima. Per lasciare delle strisce di terreno più sodo dove poter passare a piedi o cavallo. I ‘rispetti’, appunto.

E così mio padre diceva spesso che, con il passaggio dalla società agricola a quella industriale, con i rispetti il mondo aveva perso anche il Rispetto. Allora, decine di anni fa…

Ma, tornando a quelle domeniche, poi si tornava verso casa. Quasi mai senza passare in una rosticceria che era all’inizio della Flaminia, che se non sbaglio si chiamava Canepa, e che faceva secondo mia madre i migliori supplì di Roma. Tram fino a Ponte Milvio e in macchina, una Giulietta fiammante appena arrivata da Milano, fino a casa.

Qualche volta, però, lì dove finiva la salita della Cassia, ci fermavano a mangiare da Dino, il Romagnolo. Una trattoria che si era stabilita nella casa del custode di una delle tante meravigliose ville che costeggiavano la consolare da ponte Milvio fino a Villa Manzoni.

Ma la cosa più esilarante, a ripensarci oggi, era che al ritorno, se per caso sulle scale di casa si incontrava un altro condomino che ci chiedeva dove eravamo stati, mamma e papà rispondevano: “siamo appena tornati da Roma”.

Michele Chialvo

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