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Mercoledì 9 Luglio 2025 16:07

“La salita”, la cima sfuggente di Hohl



Nel libro della vita dello scrittore svizzero, il racconto di un'ascesa in montagna di due ragazzi, in un giugno di inizio '900. Una storia che sin dall'inizio assume un valore simbolico

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“La salita”, pubblicato per a prima volta nel 1975, tradotto in italiano per Sellerio da Umberto Gandini con una nota di Davide Longo, è stato il libro della vita di Ludwig Hohl (1904-1980), scrittore svizzero di lingua tedesca il quale, nonostante la stima e l’apprezzamento che gli tributarono i ben più famosi e celebrati suoi connazionali Max Frish e Friedrich Dürrenmatt, restò appartato e solitario, quasi rinchiuso in una cantina ginevrina dove lavorò fino all’ultimo in modo maniacale a quest’opera come un monaco laico.

Il racconto che ne consegue, di circa cento pagine, la classica misura della novella, rievoca un’ascesa in montagna compiuta da Ull e Johann, decisi a conquistare la vetta del ghiacciaio della Jungfrau. È giugno, all’inizio dell’estate, sono i primi decenni del Novecento: tutto comincia, insieme all’entusiasmo degli appassionati escursionisti, e già si consuma, lasciando presagire il peggio. Sin dall’esordio la storia assume un valore simbolico, come potrebbe essere il castello di Franz Kafka.

Il lettore intuisce che la minuziosa, ossessiva e stilisticamente irreprensibile descrizione del percorso alpinistico, ben lungi dall’essere strumentale, rappresenta il cuore stesso della narrazione ritmica e pulsante. I seracchi che si formano dopo l’apertura dei crepacci suscitano osservazioni talmente minuziose da far pensare che possano rappresentare capricci della creazione, misteriose allusioni a chissà quali arcani significati, neanche fossero disegni e abbozzi di Piranesi: «In superficie tuttavia le figure contorte e protese sono d’una varietà massima, qui storte, là erte come fiamme, alcune così chine che ci si chiede come possano ancora reggersi, altre massicce e possenti, alcune a una certa distanza l’una dall’altra, altre per lo più addossate, fitte, paurose e grottesche insieme; un intrico di figure o forme come di corna di cervi o denti di vampiro, di leoni o di orsi rampanti, caricature d’un fornaio o d’un garzone di mugnaio col sacco in spalla, d’un consigliere municipale con tanto di cappello nero, d’una donna a lutto, avvolta di panni da capo a piedi, di draghi e coccodrilli».

I ragazzi arrivano nella baita sull’alpeggio puntando verso l’alto. Affrontano tempeste di neve, dormono nei rifugi sospesi nell’abisso, fin quando si dividono visto che Johann, meno determinato del compagno più avventuroso, decide di desistere e tornare indietro. Ull raggiunge la cresta e, dopo aver perso la piccozza, si trova ad affrontare la lunga notte. A chi gli chiedesse cosa glielo fa fare risponderebbe: «Per sfuggire alla prigione». Lo scrittore svela così la natura eminentemente filosofica e speculativa del suo magistrale apologo, tanto realistico quanto metafisico. E davvero, a libro chiuso, abbiamo l’impressione di sentir rimbombare ancora nelle orecchie i passi dei suoi personaggi verso una cima sempre sfuggente che ci riguarda tutti.

9 luglio 2025

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