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Martedì 16 Settembre 2025 22:09

Un mito americano…Robert Redford

Articolo con intervista a cura di Ilaria Solazzo “In foto Giorgio Leonardi scrittore, saggista, critico

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Articolo con intervista a cura di Ilaria Solazzo


“In foto Giorgio Leonardi scrittore, saggista, critico letterario ed opinionista culturale”

Robert Redford è morto. Novant’anni, attore, regista, produttore. Un uomo che ha attraversato il cinema americano come pochi altri, con la discrezione di chi non ha mai avuto bisogno di gridare per farsi ascoltare.

La notizia è giunta nelle prime ore della giornata: si è spento nella sua casa nello Utah, lontano dai riflettori, come era abituato a vivere da quando aveva deciso di ritirarsi – almeno ufficialmente – dal palcoscenico del mondo. In realtà, non ne era mai uscito del tutto. Perché Robert Redford non era soltanto un volto del cinema: era un’idea dell’America. Quella che si concede ancora il lusso della dignità.

L’uomo dietro la leggenda

Lo ricorderanno, probabilmente, per Butch Cassidy, per La stangata, per I tre giorni del Condor, per Tutti gli uomini del presidente. Film che hanno segnato un’epoca e un’estetica. Ma sarebbe riduttivo fermarsi alla filmografia.

Redford era uno di quei rari personaggi pubblici che non hanno mai recitato nella vita ciò che non erano fuori dal set. Misurato, riservato, sempre coerente con se stesso. In un mondo dominato dall’isteria dell’apparire, aveva scelto di coltivare la sostanza. E ci era riuscito.

Il Sundance e la cultura dell’indipendenza

Nel 1981, con lungimiranza e rigore, fondò il Sundance Institute, e poi il festival omonimo. Era la sua risposta a un’industria che cominciava a divorare sé stessa, sacrificando l’arte sull’altare del profitto. Con Sundance, Redford offrì una via d’uscita ai giovani registi, un rifugio a chi voleva raccontare storie diverse, senza passare per la macchina tritacarne di Hollywood.

Fu, anche in questo, un innovatore. E come tutti gli innovatori veri, non ne fece mai motivo di vanto.

Un americano esemplare

Redford era profondamente americano. Ma non l’americano retorico, pomposo, muscolare. Era l’americano con la schiena dritta, cresciuto in un’America che credeva ancora nella possibilità di conciliare libertà e responsabilità. Amava la natura, difendeva le cause ambientali, ma senza mai trasformarsi in ideologo. Parlava poco, e solo quando aveva qualcosa da dire.

Nessuno, nel mondo del cinema, ha mai avuto da ridire su Redford. Né uno scandalo, né un eccesso. Mai una parola fuori posto, né un gesto sopra le righe. Era un uomo perbene. E oggi, a dirlo, può sembrare persino rivoluzionario.

L’eredità che resta

Ciò che lascia, Redford, è più grande del suo nome. Ha educato, attraverso i suoi film e le sue scelte, intere generazioni al gusto della sobrietà, al coraggio della coerenza, alla bellezza di un racconto che non ha bisogno di effetti speciali per colpire.

Non sappiamo quando e come si svolgeranno le esequie. Forse in silenzio, come ha vissuto gli ultimi anni. Ma non è importante. Perché la sua memoria, già oggi, è patrimonio di tutti. Di chi ama il cinema, ma soprattutto di chi crede che si possa essere celebri senza diventare banali.

A Redford avrebbero potuto intestare una carriera, un festival, una scuola di cinema. Ma lui, probabilmente, avrebbe preferito un bosco, una strada secondaria, un sentiero di montagna. Perché era lì che ritrovava il senso delle cose.

E in fondo, a modo suo, era già uscito di scena da tempo. Solo che oggi, senza di lui, ce ne accorgiamo davvero.

IL RICORDO DI UN MAESTRO DEL CINEMA

Giorgio Leonardi: “Redford è stato l’ultima incarnazione dell’America che credeva nella bellezza silenziosa”

Nel giorno in cui il mondo del cinema piange la scomparsa di Robert Redford, figura emblematica del grande schermo e dell’impegno culturale indipendente, abbiamo scelto di affidarci alla voce di Giorgio Leonardi per riflettere sul valore e sull’eredità di questo artista straordinario.

Leonardi, uomo di cultura a 360 gradi, saggista, narratore, docente e fine osservatore del mondo delle arti, è stato individuato come interlocutore ideale per raccontare Redford non solo attraverso i suoi film, ma nella sua dimensione più profonda: quella dell’intellettuale schivo, del promotore del pensiero libero, dell’americano che ha saputo coniugare successo e integrità.

In un momento in cui la narrazione rischia di farsi emotiva e superficiale, Leonardi porta invece uno sguardo lucido, colto e personale, capace di restituire alla figura di Redford il peso storico e simbolico che merita.

L’intervista che segue vuole essere non solo un omaggio, ma anche una riflessione sul ruolo dell’artista oggi, su ciò che ci lascia un uomo che ha attraversato il Novecento – e parte del nuovo millennio – con discrezione e rigore.

In foto Giorgio Leonardi scrittore, saggista, critico letterario ed opinionista culturale


“Redford? Un artista sobrio, libero, profondamente americano”, Giorgio Leonardi.

Nel giorno della scomparsa di Robert Redford, abbiamo intervistato Giorgio Leonardi, intellettuale e uomo di cultura tra i più apprezzati del panorama italiano, autore anche di un libro sulla presenza del cinema nella letteratura contemporanea, per ricostruire il profilo umano e artistico di una delle icone più complesse e affascinanti del cinema americano.

Dottor Leonardi, cosa ha rappresentato secondo Lei Robert Redford per la storia del cinema?

Non è sbagliato definire Redford un divo atipico nel mondo della celluloide, perché non è stato solo un’icona di bellezza, l’ideale di un eroe cinematografico elegante e fascinoso, e un mito della cinematografia a stelle e strisce. Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (periodo d’oro del cinema americano) è stato uno dei volti più riconoscibili e rappresentativi, anche per merito di un’oculata scelta dei personaggi che ha interpretato nelle sue pellicole. Proprio a proposito dei suoi personaggi, Redford ha saputo incarnare un modello peculiare, coniugando la virilità con la delicatezza e l’introspezione. I suoi sono protagonisti come quelli delle opere del suo connazionale Ernest Hemingway: uomini in bilico tra trionfo e caduta, quindi profondamente americani. Ma direi che, fuori dalla finzione cinematografica, rappresentando un modello umano psicologicamente stratificato, lui stesso si muove quasi come un protagonista dei migliori romanzi della letteratura novecentesca, quelli della crisi in cui gli individui tormentati si scontrano con la frammentazione della realtà in cui vivono. In tal senso, al di là dei ruoli interpretati, anche la sua personale parabola esistenziale assume di per sé contorni molto letterari.

Ma c’è di più, Redford ha rappresentato la possibilità che un attore potesse essere anche un intellettuale senza rinunciare alla popolarità. È stato un interprete eccellente, certo, ma anche un uomo capace di riflettere sul ruolo del cinema nella società. Non è mai stato schiavo del suo successo: lo ha usato per dare voce a storie scomode, indipendenti, spesso fuori mercato. Questo, per me, lo rende unico.

Lei parla di Redford come di un intellettuale. Non è un’immagine abituale per un attore hollywoodiano…

No, non lo è. Ma è giusto fare una rapida precisazione. Redford non è esattamente l’emblema dell’attore impegnato, è vero. Non è stato come Jean-Paul Belmondo o Jane Fonda, per intenderci… e non ha militato nell’impegno sociale come fece il nostro Pasolini. Ma Redford ha comunque mantenuto una giusta distanza dai cliché più usurati del divismo superficiale. Ha costruito un pensiero critico, ha sostenuto il cinema indipendente quando nessuno lo faceva. Con il Sundance Institute e il relativo Festival ha vestito i panni (non attoriali) di un vero mecenate, allestendo un evento che non è solo culturale ma una presa di posizione politica in favore della diversità narrativa. Quando parlo di “politica”, nel suo caso, lo faccio nell’accezione aristotelica del termine: non come ideologia ma come cura della “polis”, ossia della comunità. Redford ha creato infatti il terreno fertile per la nascita di una coscienza civile. Ha dato voce a una nuova generazione di registi, ridisegnando i confini del cinema americano. Se vogliamo questo conta più di una presa di posizione estemporanea a favore di telecamera perché pone le fondamenta di un pensiero per la collettività al di là del narcisismo individuale. Redford non ha mai alzato la voce, ma ha saputo incidere. E questo è, a mio avviso, il tratto dell’intellettuale vero, un po’ come sostiene Elémire Zolla: non un tecnico né necessariamente un uomo di lettere, bensì una coscienza critica al di là delle mode, capace di leggere le dinamiche universali, anche a costo di venire emarginato.

C’è un ruolo, o un film, che secondo Lei sintetizza meglio la sua figura?

Un solo ruolo? Quasi impossibile. Prima accennavamo alla statura intellettuale di Redford, un film che ne dà prova è, per esempio, “Tutti gli uomini del Presidente” in cui interpreta il ruolo del giornalista che scava nel fango del potere alla ricerca della verità. In questo film ha raccontato meglio di qualsiasi cronaca giornalistica lo scandalo Watergate, e lo ha fatto da intellettuale, tanto più che non ha solo interpretato il ruolo del protagonista ma ha anche scelto di produrre questa pellicola potenzialmente scomoda. E questo è un atto da intellettuale, che usa il cinema non solo come intrattenimento per il pubblico ma anche come strumento di coscienza politica. Niente cowboy che stringono in mano delle colt fumanti ma giornalisti armati di penna e coraggio. Come non pensare allora ai giornalisti dei romanzi di John Dos Passos, altro grande narratore americano? Quelli che non si limitano a osservare e a raccontare una realtà, ma cercano una verità nella frammentazione della stessa, corrotta dalle logiche di potere. Però, tra i moltissimi personaggi da lui portati sul grande schermo, mi consenta almeno di ricordare di sfuggita la sua inarrivabile interpretazione di Jay Gatsby nel film che porta sullo schermo il capolavoro narrativo di Fitzgerald, vestendo splendidamente i panni di un uomo che è, per antonomasia, il simbolo del cosiddetto “American dream”. Ruoli tra loro diversissimi eppure coerenti con la sua visione del mondo. Mai inutili, mai banali. Redford non era mai solo un volto, ma un pensiero davanti a una macchina da presa.

Secondo Lei, che tipo di America rappresentava Redford?

Rappresentava l’America, credo basti dire questo. Proprio la grande varietà di personaggi interpretati abbraccia, in pratica, quasi tutti gli archetipi dell’immaginario collettivo americano. Abbiamo citato poco fa il giornalista d’assalto e il “self-made man”. Ma potremmo elencarne molti altri: l’avventuriero de “La mia Africa”, il fuorilegge de “La stangata”, il cowboy selvaggio in “Butch Cassidy”, il campione di baseball ne “Il migliore”, lo spregiudicato uomo di potere in “Proposta indecente”, il maturo saggio ne “L’uomo che sussurrava ai cavalli”, e potremmo proseguire a lungo. In pratica l’intero arco di una nazione articolata e complessa come quella che ha rappresentato. E in questa sua necessità di rappresentarla, in tutte le sue componenti, emerge la sua visione ampia e aperta e il suo animo nobilmente liberale.

Cosa ci lascia oggi, al di là dei film?

Ci lascia un esempio. In tempi in cui l’apparenza è tutto, Redford ci ricorda che si può essere visibili senza essere invadenti e senza strillare per farsi notare. Che si può dire molto, anche senza parlare troppo, e che i fatti contano ancora più delle parole. E soprattutto, che si può lavorare nel cuore dell’industria culturale globale senza vendersi. Redford ha difeso le libertà individuali senza urlare il suo progressismo, rivendicando sempre la sua indipendenza. L’uomo Redford si è speso per battaglie ambientaliste, per la giustizia sociale e contro ogni repressione del pensiero, ma lo ha fatto senza appiccicarsi addosso etichette di partito o pregiudizialmente ideologiche (un malvezzo frequente invece nella classe attoriale del nostro Paese). Per lui etica ed estetica andavano di pari passo. Il suo lascito è una lezione di misura, di stile, di coerenza. Valori sempre più rari.

Ascoltare Giorgio Leonardi parlare di Robert Redford è come osservare una fotografia in bianco e nero: ogni parola restituisce chiaroscuro, profondità, silenzio. In un’epoca in cui l’eroismo si misura in decibel, Redford ci ha insegnato che la vera forza può anche bisbigliare. Che si può lasciare un’impronta senza calpestare. Che il successo non è solo un traguardo, ma una responsabilità.

La sua vita, la sua carriera, e soprattutto il suo sguardo – quel misto di malinconia e rigore – ci ricordano che l’integrità è una forma d’arte, forse la più difficile da esercitare.

Oggi che si spegne una voce così limpida, resta il dovere – ma anche il privilegio – di custodirne la lezione. Non solo per chi fa cinema. Ma per chiunque creda ancora che eleganza e coscienza possano camminare insieme. Anche sotto i riflettori…..





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