Venerdì 3 Ottobre 2025 20:10
Intervista a Tonino Bettanini, autore del romanzo “L’impermeabile di Kabul”
Abbiamo incontrato lo scrittore, giornalista e filosofo genovese Tonino Bettanini presso la biblioteca L’arcipelago di...
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Abbiamo incontrato lo scrittore, giornalista e filosofo genovese Tonino Bettanini presso la biblioteca L’arcipelago di Roma in occasione della XVI edizione del Festival della Letteratura di Viaggio. In questa occasione, l’autore ha accettato di parlarci del suo bellissimo romanzo, “L’impermeabile di Kabul”. Il protagonista dell’opera è Brando Costa, un commis di Stato che viene incaricato dall’Unità di Crisi della Farnesina di recarsi in Afghanistan proprio nei fatidici giorni dell’agosto 2021, quando la presa del potere da parte dei talebani appare inevitabile.
Vuole spiegare ai lettori il perché dell'”impermeabile” del titolo?
Il titolo ha a che fare con qualcosa di molto autobiografico. I lettori potranno sorriderne, ma in realtà all’origine c’è proprio un impermeabile in senso fisico, a cui ero molto affezionato e che ho misteriosamente perduto. Diciamo che questo piccolo dolore è diventato poi un pretesto per costruirci attorno una storia e anche un titolo. Poi, l’impermeabile può essere anche la metafora di qualcosa di caro a cui tutti noi siamo affezionati, che abbiamo perduto e che vorremmo ritrovare, e così nobilitiamo anche questa idea che ha generato il titolo del libro.
Il protagonista del suo romanzo è Brando Costa, consigliere della Farnesina. Lei stesso è stato portavoce di Franco Frattini alla Funzione Pubblica, a Bruxelles e in Farnesina. Quanto di sé e della sua esperienza personale c’è in Brando?
“L’impermeabile di Kabul” è il quarto romanzo che scrivo. Tutti hanno per protagonista Brando Costa, una figura ispirata alla mia esperienza di vita presso le istituzioni. È così fin dal mio primo libro, intitolato “Contro tutte le paure”, ambientato in una Roma all’inizio degli Anni Novanta, nel pieno della guerra di mafia. Si tratta di un noir ispirato ad una esperienza che ha segnato profondamente la mia vita privata, ossia i due anni della mia attività presso il ministero che allora si chiamava di Grazia e Giustizia, dove ho lavorato con Claudio Martelli e con Giovanni Falcone. Ne parlo perché il lettore che volesse incontrare quella storia vi troverebbe il primo Brando. Il secondo romanzo sempre con protagonista Brando invece è ambientato a Bruxelles, circa dieci anni dopo “Contro tutte le paure”. Scrivendo questo secondo romanzo coltivavo l’idea di provare a descrivere due mondi e due aspetti diversi delle istituzioni italiane; infatti, “Contro tutte le paure” è un romanzo calato dentro la Prima Repubblica, mentre “Bruxelles” sta già dentro la Seconda. E mentre in “Contro tutte le paure” la storia si snoda in una situazione di pericolo e di rischio, “Bruxelles” è invece un racconto sempre in chiave thriller – nella fattispecie il tema è il terrorismo – ma anche un’occasione e un atto d’amore per una città che io appunto amo molto. Ogni capitolo di questa storia bruxellese ha una sua location definita, per esempio un palazzo, un locale pubblico, uno spazio molto conosciuto della città. La terza storia di Brando Costa è “L’icona di San Pietroburgo”. Mentre secondo romanzo è calato all’interno della Commissione Europea, il terzo ci introduce al mondo della Farnesina, che in qualche modo prepara l’ultima narrazione di cui parliamo questa sera, che è appunto “L’impermeabile di Kabul”. Tutte le storie hanno un incipit o un’occasione narrativa che ho vissuto personalmente; poi, nel loro sviluppo naturalmente si seguono altri percorsi, spero più fantasiosi, ma anche meno aderenti alla mia esperienza reale per una mia scelta, quella di rappresentare la vita quotidiana delle istituzioni; i miei racconti hanno un tratto prevalentemente emotivo e anche adrenalinico, ma non sono storie di violenza o di critica gratuita, c’è sempre un certo rispetto per questi mondi.
Il suo romanzo è ambientato in Afghanistan durante i giorni terribili del ritiro occidentale e del ritorno al potere dei talebani. È corretto affermare che tramite il suo libro ha voluto denunciare la tragedia che da allora vive la popolazione afghana?
Sì, certamente c’è questo tema, che però ha a che fare anche con il senso di colpa che secondo me noi “occidentali” dovremmo provare nei confronti del mondo afghano, che in qualche modo ha creduto in un cambiamento e in una modernizzazione. In fondo, l’universo musulmano per lo meno dal Novecento in avanti ha conosciuto il pendolo e l’oscillazione tra il tradizionalismo anche molto violento e aspro e la ricerca di modernizzazione e cambiamento. Recentemente il mondo occidentale ha tentato di liberare l’Afghanistan dal giogo talebano, così si sono create delle aspettative e delle speranze che poi sono andate decisamente deluse, e quindi in questo senso il libro è una testimonianza di questo debito e di questa colpa nei confronti del mondo afghano, anche se questo aspetto non è il motivo principale della narrazione.
Nel suo romanzo ha dato particolare risalto ad un personaggio femminile, quello di Samira, una coraggiosa ragazza afghana, figlia di un archeologo, che aiuta il protagonista a svolgere la sua missione. Quanto la preoccupa la situazione delle donne in Afghanistan?
Dire che mi preoccupa è quasi una ovvietà. Se c’è una evidenza di colpa, questa in particolare è nei confronti dell’altra metà del cielo, il mondo femminile afghano. Samira nella storia rappresenta un certo tipo di personaggio femminile, nel senso che in qualche modo simboleggia quella voglia di cambiamento, quella voglia di crescita che l’universo femminile afghano aveva saputo esprimere ed incoraggiare anche con delle realtà importanti. Nel libro questo aspetto che sto per citare è appena evocato verso la fine del racconto, ma Samira nella mia immaginazione è un personaggio performer di un’orchestra tutta femminile che è esistita effettivamente a Kabul, la “Zohra Orchestra”, che ha ispirato una campagna di comunicazione importante che il nuovo Afghanistan sviluppava a livello internazionale con delle tournée dell’orchestra, dimostrando attraverso la performance di queste ragazze quanto la parità di genere stesse progredendo in quel Paese. Quindi Samira è l’espressione di questa bella realtà, purtroppo interrotta. Nel racconto poi Samira ha una parte influente, è una donna coraggiosa, è capace di aiutare anche un Brando un po’ impacciato in fuga dai talebani. E poi, lei è anche il personaggio forse terminale della narrazione, perché non sappiamo se la storia proseguirà. Ma io penso che proseguirà.
Il romanzo valorizza anche un altro personaggio femminile, quello di Marta Moncada, stimatissimo – e a ragione – capo dell’Unità di Crisi della Farnesina. Si può presumere che lei abbia un particolare rapporto di stima nei confronti delle donne?
Sì, lo dico interessatamente perché sono state nella mia ormai lunghissima esperienza istituzionale delle compagne di lavoro intelligenti e valide, quindi diciamo che la fotografia che ne faccio ritrae l’esperienza fortunata che io ho avuto e che in qualche modo nel racconto ho voluto testimoniare. Nel caso specifico a me piaceva celebrare l’Unità di Crisi della Farnesina anche per una prospettiva narrativa, perché rappresenta anche fisicamente una plancia di comando attorno alla quale poter quindi far ruotare la narrazione; è un punto di riferimento attorno al quale le storie, geograficamente sparse, si raccolgono. A capo della Unità di Crisi ho messo una donna e anche questo sembrerebbe, e può darsi che un poco lo possa apparire, un aspetto di “piaggeria” nei confronti del mondo femminile. Tuttavia, la realtà è che mi sono ispirato ad un personaggio femminile perché nella prima delle mie due esperienze in Farnesina a capo della Unità di Crisi c’era una donna, che è diventata tra l’altro nella vita e nella realtà una figura istituzionale molto importante: Elisabetta Belloni, con la quale poi ho avuto il privilegio di incontrarmi recentemente a Bruxelles, quando ho presentato appunto “L’impermeabile di Kabul”.
Il personaggio di Matteo Orlando, l’operatore umanitario amico di Brando, si ispira ad una persona realmente esistita?
Assolutamente sì, è una persona che nella mia esperienza di vita ha un posto importante. Si tratta di Ferdinando Rollando, tra le altre cose una bravissima guida alpina. Franco Frattini, allora ministro, lo aveva voluto seguire nei suoi sogni di insegnare agli afghani lo sci. Questo suo desiderio non era un desiderio cervellotico, perché corrispondeva ad un’esigenza reale, in quanto in Afghanistan tutti gli inverni muoiono tante persone sotto le valanghe, quindi lo sci è una via di fuga e di salvezza. Rollando, che con Frattini abbiamo aiutato, scriveva dei bellissimi report , delle mail su una chat seguita da molte persone, non solo italiane. Io le ho raccolte perché amavo molto il suo modo di scrivere, oltre che la sua persona. In seguito, purtroppo, Rollando è scomparso in una escursione, che stava affrontando con un giovane suo amico sul Monte Bianco. Non è tornato più indietro, non abbiamo ritrovato nemmeno il suo corpo. Dopo qualche anno dalla sua scomparsa ho proposto alla famiglia di raccogliere queste email e di farne un editing, cosa che poi sono riuscito a fare. Così è stato pubblicato questo libro che si chiama “il cielo di Kabul”, che è la storia del mullah dello sci. Il volume è firmato da Rollando e curato da me. Mi sono preso questo incarico non solo come debito di riconoscenza, ma anche come occasione per celebrare una bella persona. Sono riuscito a realizzarlo anche studiando molto il rapporto tra l’Italia e l’Afghanistan, che è molto più profondo di quanto si possa immaginare. L’Italia è stato il primo paese a riconoscere l’indipendenza di questo Paese, dunque abbiamo potuto godere di particolari privilegi che gli afghani ci hanno concesso. Tra questi, quello di aprire una sede religiosa dedicata al culto cristiano a Kabul. L’Italia si avvarrà poi di questa concessione grazie ai Barnabiti scelti dal papa e mandati in Afghanistan. Quando sono arrivati i talebani, i nostri religiosi hanno dovuto andarsene, ma hanno lasciato un profondo e bel ricordo per le azioni che hanno compiuto nel mondo dell’assistenza e anche dell’educazione laica. Da tutta questa esperienza carica di belle cose e densa anche di storia io ho ricavato l’idea di ritagliare un personaggio, Matteo Orlando, che è una figura molto più pallida rispetto alla consistenza del Ferdinando Rollando in carne ed ossa. Il mio Matteo Orlando è un personaggio che ha comunque un suo perché, ed è anche animato da un desiderio di relazione caritatevole nei confronti delle persone bisognose. Non credo di rovinare le sorprese del lettore dicendo che in realtà lui si è infilato in un traffico un po’ strano, un po’ illecito, ma animato da una bella speranza e da una buona disposizione ad aiutare gli altri, e cioè quella di trovare delle risorse per comprare una TAC che potesse aiutare l’ospedale italiano a Kabul. È chiaro che una figura come la sua scappa al controllo e all’occhio vigile delle istituzioni, anche se la sua fuga è meritoria. Matteo si mette e crea , se posso usare un’espressione poco elegante, molti casini.
Lei ha affermato di essere “un viaggiatore alquanto distratto”, eppure nel suo romanzo le descrizioni delle città e del paesaggio montagnoso dell’Afghanistan sono estremamente vivide e suggestive. Ha visitato in prima persona quella terra salgariana?
Forse i lettori non lo possono immaginare, ma vivendo fondamentalmente un’attività e una professione di vicinanza con il Ministro degli Esteri ero spessissimo con lui in – chiamiamole tra virgolette – missioni che per lo più si consumavano in poche ore, poche volte in qualche giorno. I periodi più lunghi della lontananza dalla Farnesina coincidevano per lo più con la settimana – tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre – dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che è in corso proprio in queste ore. Per quanto riguarda l’Afghanistan il più delle volte si arrivava e si cercava di andare via il prima possibile, non soltanto per la nostra sicurezza, ma soprattutto anche per il personale che deve assicurare la sicurezza delle figure istituzionali: un impegno stressamente e molto gravoso.
La conoscenza dell’Afghanistan mi è nata un po’ dall’editing che avevo fatto del libro di Rollando, che mi aveva posto in contatto con tanti itinerari e paesaggi. Lui era anche un buon fotografo ed è stata prodotta anche una mostra in suo onore in Italia utilizzando molto del materiale che lui aveva accumulato. Poi devo dire che frequentando Google e digitando nomi di paesaggi e situazioni ci imbattiamo facilmente in video, riprese live, in contemporanea, a qualsiasi ora del giorno e della notte, quindi si può dire che la documentazione, proprio per riprendere anche un ‘eco salgariana, è molto meno lasciata alla fantasia e molto più alimentata dal reale. Vorrei anche aggiungere, per richiamare anche la mia proverbiale distrazione, che quando visito i posti ho poi bisogno attraverso la scrittura di trovare un incentivo a ritornare,se non in senso fisico, almeno mentale e visivo sui miei passi. Le mie descrizioni possono apparire tanto più accurate quanto più distratto ero nel momento in cui sono passato lì nel posto che ora descrivo.
La conoscenza dell’Afghanistan mi è nata un po’ dall’editing che avevo fatto del libro di Rollando, che mi aveva posto in contatto con tanti itinerari e paesaggi. Lui era anche un buon fotografo ed è stata prodotta anche una mostra in suo onore in Italia utilizzando molto del materiale che lui aveva accumulato. Poi devo dire che frequentando Google e digitando nomi di paesaggi e situazioni ci imbattiamo facilmente in video, riprese live, in contemporanea, a qualsiasi ora del giorno e della notte, quindi si può dire che la documentazione, proprio per riprendere anche un ‘eco salgariana, è molto meno lasciata alla fantasia e molto più alimentata dal reale. Vorrei anche aggiungere, per richiamare anche la mia proverbiale distrazione, che quando visito i posti ho poi bisogno attraverso la scrittura di trovare un incentivo a ritornare,se non in senso fisico, almeno mentale e visivo sui miei passi. Le mie descrizioni possono apparire tanto più accurate quanto più distratto ero nel momento in cui sono passato lì nel posto che ora descrivo.
Nel romanzo si parla dei lapislazzuli, le leggendarie pietre blu tipiche dell’Afghanistan. Che ruolo hanno nella storia?
Nella storia hanno effettivamente un ruolo importante, perché rappresentano una prospettiva e un’occasione di ricchezza per chi se ne voglia appropriare, vedi in particolare i talebani, ma non solo loro. Anche tante tribù afghane che sono nel territorio hanno infatti potuto beneficiare del possesso di queste pietre e del loro scambio, che genera delle fortune importanti in termini economici. ll tema del lapislazzuli sta dentro a una trattativa che è interna alla narrazione; ma poi, come sempre succede nell’avvio del motore di una storia, il lapislazzuli è stato per me un’eco iniziale, ha fatto cioè maturare un interesse che mi ha portato a decidere di scrivere “L’impermeabile di Kabul”. Tutto è nato in seguito ad una serie di circostanze occasionali; io credo molto nel caso, e quando capita mi piace celebrarlo. Per combinazione mi trovavo a Padova. Avevo visitato qualche ora prima la Cappella degli Scrovegni, nella quale Giotto usa il blu dei lapislazzuli e, rientrato in albergo, sento una trasmissione radiofonica di Rai Tre dedicata a queste pietre, che sono molto costose. Questi e tanti altri piccoli flash sono stati parte di una decisione a scriverne, e a scriverne dentro una storia.
La ringrazio per questa occasione che ha dato a me e ai lettori di soddisfare le nostre curiosità sul suo lavoro e in particolare sul suo ultimo romanzo. Le faccio solo un’ultima domanda. “L’impermeabile di Kabul” è il quarto romanzo con protagonista Brando Costa. Ha già nel cassetto il quinto libro incentrato su questo personaggio coraggioso ed umano? Oppure altri progetti?
Ci sarà un quinto Brando? Nelle mie intenzioni sì, e la sua storia è quasi compiuta, ci vuole però qualcuno a cui piaccia e decida di farla circolare. Sono poi io a ringraziarla per questa chiacchierata; è sempre più raro trovare persone che leggano le cose che tu hai scritto e questo incontro è una gioia e una soddisfazione credo comprensibile per chi come me scrive. E io scrivo anche perché mi piace immaginare che uno legga queste mie cose e in qualche modo le condivida, anche se sono benvenute le critiche che immagino anche questa mia fatica meriti.
Federica Focà