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Lunedì 6 Ottobre 2025 21:10

Intervista a Stefano Bove, in arte Zhew

Abbiamo incontrato Stefano Bove, in arte Zhew, questa estate a Tufo Basso di Carsoli in...

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Abbiamo incontrato Stefano Bove, in arte Zhew, questa estate a Tufo Basso di Carsoli in occasione della presentazione del suo libro “Tutti a cercare fiori tra le macerie. Manifesto della Street Art Relazionale”. Siamo rimasti particolarmente impressionati dal rapporto particolare che aveva stabilito con alcuni bambini, con cui aveva realizzato dei bellissimi murales che abbelliscono tuttora il borgo. Dell’esperienza con i “cuccioli” di Tufo, così come di quella con tanti altri “artisti in erba”, Zhew parla nel suo libro. ll giovane artista ha accettato di parlarci della sua idea di arte come attiva, così come delle interessantissime idee che espone nella sua opera.

  • In quale momento della tua vita hai deciso di diventare un artista?
Da bambino disegnavo e inventavo animali mentre da adolescente sfogavo la maggior parte delle mie emozioni col writing come tentativo di lasciare il mio segno in un mondo che non accettavo.
Ho lasciato la scuola prestissimo e ho lavorato in vari settori finché nel 2017 non ho subito un grave infortunio che mi ha tenuto fermo per mesi.
Durante la lunga degenza ho avuto tempo per capire quanto la vita che stavo costruendo non era ciò che volevo.
Mi sono rimboccato le maniche, ho fatto i salti mortali per recuperare gli anni di studio persi e prendere 2 diplomi della secondaria II grado, 1 diploma I livello, un diploma II livello, abilitazioni all’insegnamento e altri titoli.
Inizialmente volevo studiare antropologia ma grazie al consiglio di mio zio Marco e al supporto della mia famiglia, mi sono deciso a seguire la passione artistica e iscrivermi all’Accademia di Belle Arti di Roma nella sede di Velletri.
Durante l’Accademia di Belle Arti ho capito che la mia arte non era soltanto tecnica ma un linguaggio sociale, maturando l’idea che non volevo soltanto “fare bei quadri”, ma lavorare con le persone e per le persone.
La realtà è che non c’è stato un momento in cui ho deciso di diventare un artista, è stata una progressione di eventi che mi ha portato a riscostruire me stesso in altre forme.

  • Perché hai scelto “Zhew” come nome d’arte?
“Zhew” è nato come tag, la mia identità in strada.
Una firma breve, immediata, che mi distinguesse come writer.
Tristan Tzara con “Per fare una poesia dadaista” invitava a ritagliare da un articolo di giornale le parole, metterle in un sacchetto, agitare ed estrarre le parole una per una, nell’ordine in cui venivano estratte dal sacchetto trascrivendole per formare una poesia.
La scelta delle mie quattro lettere è partita così, giocando con la poetica del caso dadaista, ha preso forma e con il tempo si è evoluta diventando il simbolo del mio percorso.

  • Che cosa ti ha spinto a scrivere il libro?
Ho sentito il bisogno di presentare la mia esperienza con la Street Art Relazionale per dare uno strumento anche ad altri che come me credono veramente che il bene parta dai piccoli gesti.
Mi scrivevano persone che volevano capire il metodo, partecipare, sperimentare ma anche persone che pensavano di aver trovato “la gallina dalle uova d’oro” senza aver compreso il vero scopo di questa disciplina che ho sviluppato.
Altro fattore importante è stato il voler restituire ai partecipanti una parte dell’affetto che mi hanno donato.
Per fortuna ho incontrato artisti, come Rossella Menichelli, Paolo Morani ed Eclario Barone, che hanno capito dal primo momento la forza di questa pratica e l’impatto sociale sui vari partecipanti, questo mi ha dato la carica per concretizzare il libro ed è anche parte del mio ringraziarli per il supporto.
Il libro comunque è  solo la parte più visibile degli effetti relazionali di questa pratica che, se svolta correttamente con persone emotivamente sintonizzate sulla stessa frequenza, può dare tanto ai partecipanti.
Troverò il modo per realizzare un’altra restituzione alla comunità di altri progetti, chissà, forse in futuro scriverò un secondo “libriccino d’artista”!

  • Come ti è venuta l’idea del doppio libro, con una parte dedicata al “Manifesto della Street Art Relazionale” che si trova su un lato del volume e un’altra dedicata a “L’allenamento alla Creatività”, che si trova sul lato opposto?
Volevo dare al lettore due punti di vista: da un lato il Manifesto, che spiega la filosofia e i principi della Street Art Relazionale; dall’altro l’Allenamento alla Creatività, che è un manuale pratico, un suggerimento all’esplorare e giocare.
Il libro è un suggerimento all’azione dove racconto ciò che ho fatto e al tempo stesso offro strumenti per “allenare” la creatività, anche a chi non dipinge murales.
Sono due facce della stessa medaglia: pensiero e azione, teoria e pratica, da leggere da una parte o dall’altra senza troppo impegno e con un lessico adatto alle varie fasce d’età.
Una parte imprescindibile del libro è stata scrivere nel formato più informale possibile, evitando di fare l’erudito e/o parlare un linguaggio tecnico che sarebbe stato chiaro solo a chi già è del settore.
Per me era fondamentale che il libro fosse come un dialogo onesto a tu per tu con lettori d’ogni età, professione, luogo e forma di pensiero.

  • Nel tuo libro affermi che la tua arte è impensabile senza un contatto ed un rapporto attivo con la società. Questo significa che mentre dipingi interagisci non solo con la tua opera, ma anche con le persone che dipingono con te, con i passanti che si fermano a guardare e in generale con l’ambiente. Come sono cambiate le tue opere grazie a questo dialogo con il mondo che ti circonda? E come stabilisci lo scambio con gli spettatori?
Ogni murale e ogni laboratorio relazionale nasce dall’ascolto di chi vive il luogo.
Io sono un facilitatore e il contenuto lo decidiamo insieme con chi abita lì per non creare “toppe visive” ma arte viva che la comunità vive attivamente.
Spesso ciò che ho in mente cambia strada facendo: una frase suggerita dal gruppo di lavoro o da un passante, un gesto di un bambino, la memoria di un anziano, diventano parte dell’opera.
Lo scambio con gli spettatori avviene già prima della pittura: incontri, sopralluoghi, workshop, chiacchiere per strada, caffè a non finire.
Così l’opera si costruisce non come “mia” ma “nostra”.
La differenza con le mie opere precedenti è semplice, prima c’era il mio segno tecnicamente corretto ma tornavo a casa uguale a prima del murale, oggi ci sono moltissimi segni tecnicamente “imperfetti” che creano opere che vanno oltre i muri e ogni volta rientro a casa sentendomi bene, felice di quello che sto facendo.
In ogni opera ascolto e conosco persone, cerco di lasciar loro la migliore parte di me e custodisco le loro storie con cura.
Nei miei lavori, fiducia e rispetto reciproco sono più importanti dell’atto pittorico.

  • Hai definito l’arte attiva come un antidoto alla alienazione dei nostri tempi. Si può dire che fare arte attiva sia il tuo personale contributo per una società più giusta, e che in questo senso che per te l’arte sia una forma di aiuto?
Per me dipingere con le persone, trasformare insieme gli spazi, è una piccola forma di resistenza alla solitudine, alla velocità del tempo e al cinismo.
È un modo di riappropriarsi dei luoghi e di costruire o rafforzare relazioni e se questo contribuisce a una società più giusta, allora è il mio modo di dare una mano.
L’arte per me è una forma d’aiuto e i lavori come arteterapeuta mi hanno insegnato l’importanza di saper vedere oltre, imprimere su qualsiasi supporto il presente.
Il presente, nell’accezione di tempo come dono, è un prezioso insegnamento che mi è rimasto impresso dagli insegnamenti.

  • Vuoi parlarci dei laboratori, i luoghi dell’ascolto attivo con l’altro, in cui comincia a stabilirsi il dialogo tra te e chi dipinge con te?
I laboratori sono lo spazio dove le idee prendono forma.
Prima di tracciare una linea sul muro ci si conosce, si disegna, si parla, si immagina.
Bambini, adolescenti, adulti: ognuno porta qualcosa e io ascolto, raccolgo parole, storie, simboli.
Il laboratorio è uno spazio di apprendimento attivo e cooperativo, come secondo John Dewey, dove i partecipanti imparano attraverso l’esperienza diretta e la pratica.
Il mio metodo è basato sull’informalità, la pari dignità, la collaborazione e il promuovere trasparenza, responsabilità e autonomia, grazie ai quali si ottiene una sorta di microsocietà orizzontale che è il cuore di tutto.
Insieme creiamo ricordi e mentre lavoriamo diamo vita all’opera e senso profondo alla Street Art Relazionale.

  • Perché hai scelto di dipingere così spesso con i bambini? Cosa hai imparato lavorando con i più piccoli e cosa hanno imparato loro da te?
Probabilmente perché i bambini hanno uno stile relazionale basato su valori diversi rispetto a quelli della società adulta, hanno ancora il coraggio di esplorare gli errori, sono ancora affezionati alla fantasia pura.
Lavorare con loro mi costringe a liberarmi da sovrastrutture, a riscoprire l’immediatezza e la bellezza del giocare, la gioia della scoperta.
Dipingere con i bambini mi ricorda la forza che ha la gentilezza e mi insegna ogni volta a vedere le cose diversamente, trasformare una S in un serpente o un serpente in un professore, una pallina blu in un personaggio o un foglio accartocciato in montagne.
E loro da me spero imparino che l’arte è un loro diritto, che il mondo è anche loro, che possono immaginare e cambiare lo spazio e il tempo con ogni segno.
Credo imparino che l’arte è anche uno spazio sicuro dove nessuno è sbagliato, dove l’errore non è altro che una possibilità per creare qualcosa di diverso dai progetti iniziali ma non per questo senza valore.

  • Quanto ti hanno ispirato nel tuo rapporto con i bambini le idee pedagogiche di quello che consideri uno dei tuoi maestri, Gianni Rodari?
Rodari per me è un maestro invisibile.
Da piccolo mi hanno letto delle sue poesie a scuola e ho immaginato mondi.
Da grande ho letto “La grammatica della fantasia” e ho trovato conferma che la creatività si può allenare ed è un diritto di tutti.
Il gioco, l’errore creativo, le storie che nascono da una parola sono strumenti che uso nei laboratori mentre nel parlare ai bambini da lui ho colto l’importanza di un linguaggio semplice, chiaro e sincero.
Rodari, come Munari, sono per me dei modelli di didattica e di utilizzo dei diversi linguaggi, due modi di raccontare come “giocare con l’arte” sia un lavoro serio!

 

  • Mi ha particolarmente colpito il tuo “Manifesto e marchio della street art relazionale”, in cui proponi il tuo metodo ad altri artisti che vogliano seguirlo senza rivendicare diritti d’autore. Vuoi spiegare ai lettori che cosa significa per te “Abbattere i muri” e “Riqualificazione” dell’ambiente, di cui parli nel Manifesto?
“Abbattere i muri” lo intendo come eliminare barriere sociali, culturali e mentali che separano le persone restituendo dei luoghi funzionali alla comunità che non siano solo “decorati”.
Gli spazi degradati non vanno esclusivamente “migliorati” in termini estetici, intervenire sul tessuto sociale è il vero senso di “Riqualificazione dell’ambiente” che avviene solo intervenendo concretamente nei luoghi considerando gli aspetti fisici, sociali ed economici del luogo in questione.
L’arte attiva prova a riportare al centro del sistema i partecipanti eliminando il concetto di artista che arriva, piazza l’opera e se ne va.
L’artista, il partecipante attivo e lo spettatore sono tutti sullo stesso piano nella mia visione ed è bene che tutte le 3 figure interagiscano tra di loro il più onestamente possibile nel rispetto reciproco.

 

  • Nel tuo libro dai dei consigli utilissimi e… creativi per risvegliare la creatività e la fantasia che si nascondono in ognuno di noi. Pensi davvero che in ognuno si nasconda un artista, o almeno un creativo?
Si, non tutti devono diventare pittori o musicisti, ma tutti hanno una scintilla creativa, basta smettere di avere paura di sbagliare, trovare il linguaggio giusto e allenarsi un po’.
Ogni professione ha bisogni di creatività, anche se espressa in diverse modalità.
Per esempio un buon cuoco, deve essere un creativo.
E il mio amico Ludovico che lavora nel settore economico? Non è creatività muoversi tra i numeri e riportarli all’ordine sapendone vedere dei lati ad altri sconosciuti?!
O ancora, il mio amico Andrea, che ha lavorato sui camion e ora pulisce Roma e ogni tanto ridà vita a oggetti da altri buttati dimostrandomi ogni volta che è creatività soprattutto vedere oltre il significato più banale dell’oggetto e del pensiero.
È creativo fare domande e saper tirar fuori da parole un dialogo collettivo, insomma, è anche da creativi riuscire a trovare qualcosa dove non serva essere creativi!

  • Quale, tra i trucchi che suggerisci per stimolare la creatività, si è rivelato il più efficace secondo la tua esperienza?
Il più efficace è l’esercizio che ti fa mettere in gioco insieme agli altri, dipende da persona a persona.
Per me è “Domande improbabili”.
Con qualsiasi fascia d’età mi sono sempre stupito di quanta bellezza e risate possano generarsi da parole e personaggi grotteschi.
Questo esercizio è uno di quelli a cui sono più legato perché mi ha dato tanto in contesti dove il disegno aveva bisogno di essere introdotto gradualmente e solo dopo aver instaurato una prima relazione di fiducia nella mia figura professionale.
Quando si esce dal proprio ego e si ascoltano altre prospettive si fanno incredibili scoperte.

 

  • Ti va di parlarci un po’ dei tuoi progetti per il futuro?
 

Nel mio futuro c’è al primo posto il lavoro da docente e con esso i con i miei studenti e studentesse ai quali tengo molto.

C’è il voler continuare a portare la Street Art Relazionale nei borghi, nelle periferie, nei luoghi dove si può fare la differenza e spostare sempre di più l’arte dall’individuale al collettivo, dal “fare un murale” al “creare una comunità intorno a un murale”.

Sto preparando dei nuovi laboratori nelle scuole, varie mostre, altri murales di memoria e impegno civile, e sto lavorando a con LAST aps su progetti interessanti, in futuro ti aggiornerò, c’è sempre posto per una partecipante motivata in più!

Ad oggi non so dirti altro su quali progetti presenterò e a quali aderirò, però sicuramente continuerò la mia ricerca sul continuare a far crescere la Street Art Relazionale come strumento di rigenerazione sociale.

Certo è che sono felice della rete di persone che si è creata e sempre più focalizzato sull’utilizzare la creatività come collante sociale, dare strumenti a chi pensa di non averne, e far capire che l’arte non è un lusso ma un bene comune!

Federica Focà

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