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Mercoledì 15 Ottobre 2025 16:10

Gaza e non solo: quando la fame diventa arma di guerra



Cesvi presenta il XX Indice globale della fame. Nell'ultimo anno guerre e conflitti armati hanno innescato 20 crisi alimentari e gettato in condizioni di fame acuta 140 milioni di persone. La Striscia, l'esempio più emblematico

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Nell’ultimo anno guerre e conflitti armati hanno innescato 20 crisi alimentari e gettato in condizioni di fame acuta 140 milioni di persone, un numero equivalente a oltre il doppio dell’intera popolazione italiana. In diversi contesti, la fame non è stata soltanto una conseguenza “collaterale” della violenza armata, ma è stata deliberatamente inflitta attraverso assedi, blocchi degli aiuti e distruzione delle infrastrutture agricole. Utilizzata come una vera e propria arma di guerra. Quello di Gaza è l’esempio più emblematico: negli ultimi due anni il ministero della Salute locale ha documentato 461 decessi correlati alla malnutrizione (oltre 270 solo nel 2025), tra cui 157 minori. Attualmente 320mila bambini sotto i 5 anni sono a rischio di malnutrizione acuta e oltre 20mila persone sono rimaste uccise (2.580) o ferite (18. 930) nel tentativo di procurarsi del cibo e accedere agli aiuti.

Sono i dati che emergono dalla XX edizione italiana dell’Indice globale della fame (Global hunger index – Ghi), curata da Cesvi e redatta da Welthungerhilfe (WHH), Concern Worldwide e Institute for International Law of Peace and Armed Conflict (IFHV). Lo studio, tra i principali rapporti internazionali sulla misurazione della fame nel mondo evidenzia che, attualmente, sono oltre 40 i Paesi del mondo che stanno fronteggiando livelli di fame grave e allarmante. A preoccupare di più è il dato del «disinteresse endemico e diffuso», evidenziato nella prefazione del Ghi da Gigi Riva, editorialista di Domani e scrittore, che parla di «impegni su scala mondiale presi e poi disattesi. Le cifre, al proposito, sono impietose – rimarca -. Dal 2016 ad oggi, dunque nell’arco degli ultimi dieci anni, la riduzione della fame nel mondo è stata minima. Tanto da poter pronosticare che sarà forzatamente disatteso l’obiettivo ambizioso della “fame zero” entro il 2030. Se si procedesse gli attuali ritmi, la meta della scomparsa della fame sarebbe raggiunta nel 2137, più di un secolo dopo».

Tornando al caso Gaza, dopo due anni di guerra è in corso «una drammatica carestia (IPC Fase 5), già attestata nel Governatorato di Gaza», si legge nel rapporto. Secondo le proiezioni,« nei prossimi mesi quasi un terzo della popolazione – circa 641mila persone – si troverà in condizione di catastrofe (Fase 5), mentre 1,14 milioni di individui saranno in emergenza (Fase 4)».
Dalla metà di marzo, oltre 1,2 milioni di persone sono state sfollate, gli aiuti, risultano ancora gravemente insufficienti e fortemente limitati e i prezzi dei beni di prima necessità sono esplosi (+3.400% per la farina). «La malnutrizione infantile è aumentata rapidamente: nel corso dell’estate 2025 sono stati individuati tra i bambini con meno di 5 anni ben28 mila casi di malnutrizione acuta, un numero più alto delle diagnosi totali dei sei mesi precedenti (da gennaio a giugno 2025 registrati 23mila casi)». Ancora, «oltre 55mila donne in gravidanza o in allattamento e 25mila neonati necessitano urgentemente di supporto nutrizionale e la produzione alimentare locale è crollata: oltre il 98 per cento dei terreni coltivabili è danneggiato o inaccessibile. la distruzione delle infrastrutture agricole, la presenza diffusa di ordigni inesplosi e il collasso dei servizi idrici, sanitari e di salute pubblica renderanno la ripresa estremamente lunga, e i mezzi di sussistenza e la nutrizione saranno in pericolo ancora per anni».

Cesvi, presente nei territori palestinesi dal 1994, fornisce quotidianamente, a Gaza City e nel centro della Striscia, circa 55mila litri di acqua potabile nei campi sfollati. Continua inoltre l’installazione di latrine e la riabilitazione delle infrastrutture igienico/sanitarie nei campi sfollati di Deir al Balah e Khan Younis. «Accogliamo con speranza le notizie di un accordo sul termine del conflitto, che ci auguriamo possa essere duraturo e definitivo, ma è fondamentale ricordare che quella in corso a Gaza continua a essere un’emergenza umanitaria di gravissima portata –  spiega il direttore generale Stefano Piziali -. La ripresa sarà lunga e difficile: milioni di persone vivono in condizioni catastrofiche, senza sicurezza né accesso sufficiente a beni essenziali, e le ferite materiali e psicologiche sono molto profonde». Oltretutto, in questo conflitto «la macchina umanitaria è stata stravolta ed è necessario che riprenda rapidamente a muoversi in maniera tempestiva, efficace e senza ostacoli. Senza un accesso continuativo e coordinato, il rischio di abbandonare la popolazione a un destino segnato rimane concreto. Qualsiasi ulteriore ritardo, comporterebbe un aumento inaccettabile della mortalità legata alla carestia». A Gaza insomma servono interventi tempestivi, ma anche «un impegno costante nei mesi e negli anni a venire per accompagnare verso un futuro dignitoso e sereno una popolazione stremata da anni di privazioni e violenza».

Il caso di Gaza, nell’analisi dei ricercatori Cesvi, è «l’espressione più drammatica di una pericolosa tendenza ben lontana dall’essere isolata». Basti pensare che nel solo 2024 quasi la metà (47%) dei casi di fame acuta in tutto il mondo sono stati provocati proprio da scontri armati. Solo nell’ultimo anno sono stati registrati quasi 200mila episodi di violenza, con un aumento del 25% rispetto al 2023. Un’escalation che ha costretto milioni di famiglie a sopravvivere senza mezzi né servizi essenziali, portando il numero di sfollati a oltre 122 milioni, il livello più alto mai registrato. «I conflitti a Gaza e in Sudan dimostrano chiaramente come la violenza armata possa distruggere rapidamente la sicurezza alimentare: tra il 2023 e il 2024 le persone esposte a livelli di carestia sono più che raddoppiate, raggiungendo quasi due milioni, di cui il 95% vive proprio in questi due contesti».

Il rischio da cui guardarsi è la “normalizzazione” dell’utilizzo della fame come arma di guerra. ««La guerra è il più crudele moltiplicatore della fame – afferma Piziali -. Dove scoppiano i conflitti, i sistemi alimentari collassano, le famiglie sono costrette a fuggire e milioni di persone vengono spinte nell’insicurezza alimentare». A rendere la situazione ancora più drammatica, il «forte calo degli aiuti umanitari registrato negli ultimi anni, mentre le spese militari hanno continuato a crescere, superando nel 2024 i 2.700 miliardi di dollari: oltre cento volte l’ammontare destinato agli aiuti umanitari». Il direttore generale Cesvi parla di «inversione di priorità» che «compromette la capacità della comunità internazionale di rispondere alla fame».

Il punteggio mondiale dell’Indice globale della fame 2025 è 18,3, indicativo di un livello di malnutrizione globale “moderato”: nel 2024, le persone che hanno sofferto di fame acuta sono state complessivamente oltre 295 milioni in 53 Paesi e territori, 13,7 milioni in più rispetto al 2023. I quattro indicatori chiave del rapporto – denutrizione, arresto della crescita infantile, deperimento infantile e mortalità infantile – restano lontani dagli obiettivi internazionali e non si registrano progressi significativi dal 2016 a causa della sovrapposizione di diverse crisi: conflitti armati, shock climatici e fragilità economiche.

Registrati livelli allarmanti di fame in 7 Paesi – Haiti, Madagascar, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sud Sudan, Burundi e Yemen -; classificati come gravi quelli di altri 35. In 27 Paesi si registra addirittura un peggioramento rispetto al 2016. Il punteggio più grave è quello della Somalia (42,6), ma dal Cesvi precisano che in diversi Paesi – tra cui proprio Palestina e Sudan, oltre che Burundi, Corea del Nord e Yemen – la situazione è così critica da rendere impossibile il calcolo completo dei punteggi di Ghi, a causa della mancanza di dati essenziali. Gli indicatori segnalano comunque un peggioramento delle condizioni e suggeriscono che la realtà sia persino più grave di quanto riportino le statistiche. «Quando i sistemi di monitoraggio vengono indeboliti o smantellati, i bisogni diventano “invisibili” – prosegue Piziali – e quindi non riescono più ad attrarre aiuti, alimentando un circolo vizioso».

A livello regionale, la fame resta grave in Africa subsahariana e in Asia meridionale (con un punteggio rispettivamente di 27,1 e 24,9), mentre si riscontrano lievi miglioramenti globali, legati soprattutto ai progressi in alcune aree dell’Asia meridionale, sud-orientale e dell’America Latina. Tuttavia, questi avanzamenti restano fragili, a conferma della necessità di politiche solide, sistemi di allerta precoce, misure di resilienza climatica e trasformazioni strutturali dei sistemi alimentari per consolidare i risultati raggiunti. Di qui l’appello urgente a rafforzare gli aiuti, investire in sistemi alimentari resilienti, adottare politiche di lungo periodo e garantire il diritto al cibo come diritto umano fondamentale.

Qui
il testo integrale del rapporto.

15 ottobre 2025

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