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Venerdì 17 Ottobre 2025 11:10

Attentato a Ranucci: intimidire il giornalismo è violare la coscienza civile



Quello contro il giornalista e autore di Report è un attacco simbolico alla libertà di stampa. Servono protezione, giustizia e responsabilità collettiva. Ogni voce zittita è un diritto negato a tutti

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Il boato dell’ordigno che ha distrutto le auto di Sigfrido Ranucci davanti alla sua casa non è una dichiarazione retorica: è un’aggressione diretta alla libertà di informare. È stato un attentato simbolico, un messaggio: la verità può essere intimidita, il coraggio può essere messo a tacere. Ma chi imbocca questa via ignora una legge elementare della storia: ogni volta che si tenta di spegnere una voce scomoda, altre dieci si accendono. La violenza cerca il silenzio, ma spesso ottiene il contrario: l’attenzione. E quando si arriva a colpire fisicamente un giornalista, si varca una soglia pericolosa: non è più solo un attacco alla persona ma alla tenuta democratica di un intero Paese.

L’obiettivo, qui, non è solo un professionista della comunicazione. È ciò che rappresenta: un metodo, un impegno, una scelta. Chi da anni, come Ranucci, con il programma Report, scava tra le zone d’ombra, si espone per definizione. E non è la prima volta che finisce nel mirino: dal 2021 vive sotto scorta, dopo ripetute minacce legate al suo lavoro d’inchiesta. In un Paese in cui troppe volte si tollera l’aggressione verbale al cronista, finché non diventa qualcosa di più grave, non si può più fingere di non vedere. Ranucci è un simbolo di quella informazione che non si accontenta delle versioni ufficiali. Ma questo non lo rende un bersaglio accettabile. Lo rende, semmai, un termometro: se colpiscono lui, stanno misurando fin dove può spingersi l’impunità.

Qualcuno ha alzato il livello. Non una minaccia anonima, non una lettera sporca di odio, ma un ordigno, piazzato sotto casa, a Pomezia, Comune alle porte di Roma. Due auto distrutte, vetri esplosi, danni all’abitazione. L’eventuale presenza di persone avrebbe potuto trasformare un’intimidazione in tragedia. Chi ha agito sapeva cosa faceva. Sapeva a chi parlava e in che modo. La Procura indaga per danneggiamento aggravato con modalità mafiose. Ma al di là delle ipotesi investigative, c’è un fatto che resta: in Italia, oggi, fare inchiesta può costare caro. Troppo caro.

La solidarietà arrivata in queste ore è giusta. È doverosa. Ma da sola non basta. È il primo passo, non l’ultimo. Le dichiarazioni ufficiali sono importanti, ma devono tradursi in misure concrete, in protezione reale, in atti legislativi che difendano il giornalismo da ogni forma di intimidazione. Serve una cultura della protezione: una rete di istituzioni, media, cittadini che non lascino soli i giornalisti esposti. Serve che le minacce siano perseguite con rigore, che gli atti intimidatori siano definiti per quello che sono: un attacco alla Costituzione. In un Paese dove ogni anno si contano decine di cronisti sotto scorta, c’è qualcosa che non funziona. E non riguarda solo chi scrive: riguarda tutti noi, il nostro diritto a sapere, a capire, a non essere manipolati.

Chi ha colpito Ranucci ha lanciato un messaggio. Ma la risposta non può essere il silenzio. Pensava di seminare paura: ha generato inquietudine. Pensava di mettere a tacere: ha acceso i riflettori. Pensava di spezzare una voce: ha mostrato quanto sia fragile, oggi, il nostro diritto a essere informati. Ma la fragilità non è un motivo per arrendersi, è una chiamata alla responsabilità collettiva. Ora la risposta deve essere all’altezza dell’attacco. Non per vendetta, ma per giustizia. Non per difendere una persona, ma un principio. Perché senza stampa libera, le democrazie non muoiono subito. Ma iniziano a marcire in silenzio. (Riccardo Benotti)

17 ottobre 2025

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