Martedì 28 Ottobre 2025 13:10
Il problema degli affitti brevi e la visione incompleta della Caritas di Roma
L'aumento delle imposte previsto nella manovra economica viene approvato da Diocesi e Caritas. Ma manca una riflessione su invecchiamento della popolazione, sul ruolo dell'e-commerce e sulle altre questioni sociali nelle città
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Riguardo il possibile aumento della cedolare secca dal 21 al 26% sugli affitti turistici, riceviamo e pubblichiamo questo interessante contributo che analizza la nota pubblicata dalla Caritas romana e ne critica le principali lacune. 
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Con una nota apparsa sul sito ufficiale della Diocesi di Roma, la Caritas di Roma è intervenuta in difesa dell’imposizione fiscale sugli affitti brevi, confidando che nei lavori parlamentari la misura venga nuovamente inserita (link:
https://www.diocesidiroma.it/la-caritas-sulla-manovra-economica-aumentare-le-imposte-sugli-affitti-brevi-una-misura-per-sostenere-il-diritto-allabitare-di-giovani-e-famiglie
).C’è da osservare che la nota mette nello stesso contenitore affitti brevi, contrasto alla povertà, regolamentazione del mercato, famiglie svantaggiate, studenti universitari… Probabilmente avrebbe giovato molto circoscrivere il problema (imposizione fiscale sugli affitti brevi) senza sconfinamenti che possano dare luogo a critiche non del tutto infondate.
Buoi e carri, cause ed effetti
In effetti le affermazioni contenute nella nota non sono sempre condivisibili. Tutti i principali commentatori concordano nel sostenere che gli affitti brevi abbiano una correlazione con l’incremento del turismo mordi e fuggi a basso costo tipico degli ultimi decenni: due giorni e due notti e via altrove. Il fenomeno dell’overtourism che segna alcune città, compresa Roma, è stato più volte ritenuto responsabile, non sempre a torto, di aver modificato il volto delle città stesse. La nota della Caritas mette giustamente in evidenza che l’attuale periodo si caratterizza per lo spopolamento dei centri storici. Perciò scrivere che “gli affitti brevi sono un fenomeno che sta modificando radicalmente il tessuto urbano e sociale, in particolare nei centri storici delle grandi città, facendo lievitare il costo degli immobili e degli affitti” equivale a ignorare la complessità del fenomeno, ponendo i classici buoi davanti al classico carro. Gli effetti al posto delle cause.
Alla radicale metamorfosi del tessuto urbano con lo spopolamento dei centri storici concorrono vari fattori di carattere sociale: non è stato ancora sufficientemente esplorato per esempio il fatto che i centri storici si spopolino anche e soprattutto a causa della scomparsa dei nuclei familiari più anziani, non rimpiazzati da figli o nipoti viventi altrove. Si spopolano a causa dei servizi non sempre adeguati alle esigenze (si pensi al trasporto pubblico) oppure a causa dei costi sempre più elevati per la manutenzione di un patrimonio immobiliare vecchio. Si spopolano non da ultimo a causa delle richieste sempre più pressanti ed esigenti delle Amministrazioni (si pensi per esempio ai vincoli delle Sovrintendenze) senza prevedere opportune compensazioni. Spesso si cita la scomparsa dei commercianti di prossimità come causa dello spopolamento, trascurando il fatto – globale – che l’e-commerce ha segnato un modo diverso di soddisfare le esigenze dei consumatori e quindi l’archiviazione del precedente modello commerciale. Il proliferare di esercizi a vantaggio turistico di fatto rende per i residenti praticamente invivibile il proprio ecosistema. Si veda in proposito il servizio di Mi manda Rai Tre sul tavolino selvaggio (link:
https://www.raiplay.it/video/2025/10/Mi-manda-Raitre—Puntata-del-19102025-3419bd90-9e6a-4a7e-8d8b-2230fa8887f0.html?wt_mc=2.www.cpy.raiplay_vid_MimandaRaiTre
). C’è infine un non trascurabile fattore economico che gioca il famoso ruolo dell’elefante nella stanza: le famiglie lasciano il centro storico, gli anziani non lasciano la loro casa a figli e nipoti semplicemente perché prezzi al metro quadro alti se non altissimi banalmente inducono costoro a vendere la propria abitazione.Gentrificazione e disneyficazione rappresentano percorsi accessori comuni in tutti i luoghi dove l’industria turistica viene considerata prevalente. In ultima analisi però tutto sembra essere fatto risalire al problema dell’overtourism.
Ci si sarebbe quindi aspettata una parola da parte della Diocesi di Roma e della sua Caritas, un commento sul complesso di questioni sociali che fa da sfondo agli affitti brevi: invecchiamento della popolazione, vivibilità delle città, ruolo delle Amministrazioni, trasformazione del modello di commercio, affermazione dell’industria del turismo. Una parola su come governare processi umani complessi piuttosto che l’appello ad una marginale imposizione fiscale.
Tuttavia il riduzionismo operato dalla Diocesi di Roma e dalla sua Caritas nel restringere al solo problema degli affitti brevi quello che appare un fenomeno articolato sembra seguire la sua più recente strategia organizzativa. Infatti esattamente un anno fa, nell’ottobre del 2024, il Settore Centro della Diocesi di Roma, di fatto coincidente con il centro storico della Capitale, è stato cancellato dall’organizzazione ecclesiastica e le sue Parrocchie assorbite dagli altri quattro Settori geografici. Troppo pochi preti? Troppo pochi parrocchiani? O troppi turisti per considerare il Settore Centro di interesse della Diocesi? Non è dato saperlo. Comunque sia si tratta di un chiaro segnale della capitolazione della Diocesi alle trasformazioni in atto.
Una riflessione sul turismo religioso
Peraltro se il fattore determinante della trasformazione radicale del tessuto urbano e sociale dei centri storici fosse semplicemente riconducibile all’overtourism (e non come detto sopra a un complesso di fattori endogeni) piuttosto che alle strategie ricettive che ne conseguono ci si sarebbe aspettato che la Diocesi di Roma con la sua Caritas prendessero una chiara posizione sul tema dell’overtourism prima ancora che degli affitti brevi i quali – giova ripeterlo – non sono causa ma effetto. Non si può in proposito dimenticare che a Roma in particolare l’overtourism ha una non trascurabile componente religiosa.
Anzi, il turismo religioso è considerato dagli stessi stakeholder un settore trainante: con il Giubileo, secondo notizie di stampa, a luglio 2025 si stimava la presenza di 5,3 milioni di ospiti tra monasteri e santuari con un incremento di +24% nella sola Roma. Ci si sarebbe aspettato in questo senso che la Diocesi di Roma con la sua Caritas facessero riferimento ai numerosi istituti religiosi trasformati in “case per ferie” che solo a Roma sono ufficialmente 151 (fonte:
https://ospitalitareligiosa.it/strutture
). L’intera ricettività religiosa romana viene stimata in circa 20.000 posti letto. Ci si sarebbe aspettato, sempre seguendo questo filone, che la Diocesi di Roma con la sua Caritas stimolassero una riflessione sul patrimonio immobiliare delle numerose Confraternite presenti nella Capitale. Soprattutto sarebbe utile sapere quanto tra case per ferie degli Istituti religiosi e patrimonio immobiliare della Confraternite venga utilizzato nelle “politiche di contrasto alla povertà” citate nella nota: 20.000 posti letto non sono pochi…
Occorre osservare che il silenzio sull’argomento dell’overtourism romano come del turismo religioso e della ricettività degli Enti gravitanti nell’orbita ecclesiale non appare privo di qualche contraddizione. Nel 2023 l’imposta di soggiorno delle case per ferie fu aumentata e portata a 6,00€ a notte, di fatto equiparando le case per ferie di Roma agli affitti brevi. Fabio Rocchi, allora Presidente dell’Associazione Ospitalità Religiosa Italiana, protestò: “Il fatto riveste una notevole gravità perché gli introiti derivanti dall’ospitalità sono quelli che alimentano le attività assistenziali, caritatevoli e missionarie dei rispettivi enti religiosi e no-profit” (fonte:
https://travelnostop.com/lazio/ospitalita/ospitalita-religiosa-scure-tassa-soggiorno-si-abbatte-solo-su-case-religiose_577703
). Era vero, ma la tassa finì lo stesso per aumentare. Oggi la Caritas sollecita l’aumento dell’imposizione fiscale per gli altri i quali avrebbero un qualche motivo di lamentarsene. Infatti l’aumento, quando anche fosse destinato a scopi sociali come auspicato dalla Caritas, non deve far dimenticare che l’equiparazione delle case per ferie agli affitti brevi vale solo per la tassa di soggiorno, mentre a certe condizioni alcune voci di tributi ne sono fuori. Sull’ipotesi di una sperequazione economica dovuta ad un differente trattamento tributario delle case per ferie rispetto agli affitti brevi ci si sarebbe aspettato un chiarimento dalla Diocesi di Roma con la sua Caritas.Immobili affittati e povertà abitativa, non basta aumentare le tasse
Proprio perché la nota apparsa sul sito della Diocesi di Roma sconfina in vari campi pare non del tutto inopportuno affrontare la più spinosa delle questioni: quella degli immobili affittati. La nota, prima di snocciolare alcuni numeri, sostiene la tesi che “aumentare l’imposizione fiscale sugli affitti brevi è un intervento importante” perché attraverso la regolamentazione del mercato si avrebbero a disposizione più fondi per interventi a sostegno della povertà abitativa. Ma di quali cifre parliamo?

Facciamo due conti della serva, approssimando generosamente per eccesso e sommando tra loro due diverse categorie ricettive. Nella sola Roma tra affittacamere e B&B secondo l’annuario capitolino 2024 si sono registrate 8.045.356 presenze. Nelle case per ferie un po’ più della metà: 4.623.050 presenze. Assumiamo il numero delle notti trascorse nelle strutture ricettive pari alle presenze turistiche. Ad una media di 100€ a notte l’aliquota del 21% avrebbe generato quasi 170 milioni di euro in favore dell’erario, mentre l’aliquota del 26% genererebbe circa 210 milioni di euro. Ammesso pure che il totalmente ipotetico maggior gettito fiscale di ben 40 milioni di euro venisse interamente destinato al sostegno della povertà abitativa, la nota dimentica di suggerire le modalità. Facciamolo noi. Si potrebbe ipotizzare una duplice strategia: l’edilizia popolare e la gestione degli affitti.
Riguardo alla prima strategia, a Roma da tempo sono in atto diverse acquisizioni di immobili da parte del Comune per destinarli all’edilizia popolare. Ciò nonostante l’edilizia popolare è in forte disarmo, vuoi per i costi vuoi per le difficoltà degli enti gestionali (si pensi alla situazione critica dell’ATER, che cerca di liberarsi come può del suo non più sostenibile patrimonio immobiliare) vuoi per le politiche generali che impongono di limitare il consumo del suolo. Insomma si costruisce poco e quel poco che si costruisce si fa in periferia a caro prezzo. I 40 milioni di euro romani, prelevati a costi difficili da quantificare con l’indeterminatezza dell’industria turistica, appaiono una cifra non proporzionata a risolvere il problema della povertà abitativa attraverso un’edilizia popolare che ad oggi si è dimostrata incapace di gestire in modo efficiente il suo patrimonio e non sembra intenzionata a nuove avventure.
Riguardo alla seconda strategia, la scelta di destinare gli immobili agli affitti brevi e ai turisti è sorretta da diverse motivazioni, che vanno oltre quella economica. Tra queste motivazioni si trovano senz’altro le difficoltà in cui si imbattono i proprietari di immobili nel far rispettare i termini del contratto. Sempre l’annuario capitolino 2024 è chiaro: i turisti stranieri preferiscono in misura maggiore farsi coccolare dagli albergatori, mentre la maggioranza dei turisti italiani si fa ospitare da strutture non alberghiere. I proprietari però sono riluttanti a cedere i loro immobili ai connazionali per affitti di maggiore durata, timorosi di non rientrarne in possesso in tempi ragionevoli o di dover subire la gogna pubblica per aver sfrattato l’inquilino. Dalle condizioni in cui verrà riconsegnato l’immobile alla sua liberazione al termine del contratto, le incertezze sono talmente numerose e gravi che senza un idoneo impianto legale non basterà distribuire in sovvenzioni gli ipotetici 40 milioni di euro romani ottenuti spremendo gli affitti brevi a convincere i proprietari a cedere il loro immobile in affitti lunghi.


Non da ultimo occorre menzionare il problema di quei Condomìni, edificati con obiettivi residenziali, nei quali si moltiplica l’affitto degli appartamenti. Soprattutto nel caso di affitti brevi il disagio provato è palpabile. Non sono pochi i periodici locali che denunciano le condizioni di vita dei condòmini dimoranti, messi a dura prova da schiamazzi, ubriachezze, ricambio turbinoso di affittuari e notevoli ripercussioni sulla gestione degli spazi e dei servizi comuni.
Ci si sarebbe aspettato che la Diocesi di Roma con la sua Caritas si schierassero in favore di un sistema in grado di favorire la residenzialità senza penalizzare ulteriormente i proprietari. Misure immediatamente operative avrebbero effetti senza dubbio più efficaci di una imposizione fiscale. Per esempio provvedere adeguati strumenti legali a sostegno dei proprietari per non costringerli ad affrontare con gli affittuari problematiche annose ed economicamente svantaggiose. E dotare i condòmini dimoranti in Condominio di una maggiore tutela legale nella gestione del Condominio stesso rispetto ai condòmini che cedono i loro immobili in affitto.
Nota a latere, l’esperimento mentale
Poiché navighiamo nel campo delle ipotesi senza avere la famosa sfera di cristallo per prevedere il futuro, si faccia un esperimento mentale. Un proprietario gestisce un immobile come B&B al costo di 100€ a notte con la cedolare secca del 21%. In seguito all’aumento della cedolare al 26% il proprietario decide di scaricare una parte dell’aumento sull’affittuario, che dovrà pagare 120€ a notte. Con questo accorgimento la perdita per il proprietario si limiterebbe a 10€ a notte rispetto al regime precedente. L’affittuario invece si troverà a pagare 120€ di affitto, al netto di tassa di soggiorno e di percentuale per l’intermediazione. Mentre il proprietario avrà conseguito un rendimento che gli permetterà di spendere 10€ in meno rispetto al regime precedente, l’affittuario dovrà prevedere una spesa di 20€ in più rispetto al regime precedente. L’esperimento mentale giunge ad una banale conclusione: a parità di risorse iniziali la diminuita capacità di spesa del proprietario e la diminuita capacità di spesa del turista affittuario incidono a somma zero sul gettito fiscale in modo che quello che viene prelevato dalla fiscalità generale con l’aumento della cedolare secca è pressoché pari a quello che la fiscalità generale non incasserà da beni e da servizi che si sarebbero potuti acquistare ma non si sono acquistati. Ciò comporta, come effetto marginale, la depressione del commercio locale dovuta al fatto che il proprietario o l’affittuario con minori capacità di spesa acquisteranno, per esempio, una pizza o un souvenir in meno. Insomma, gli ipotetici 40 milioni di euro devoluti in tasse saranno di fatto ripagati dal commercio locale. Con gli inevitabili aumenti per compensare le perdite.
Ci si sarebbe aspettato…
Alla Diocesi di Roma e alla sua Caritas non può sfuggire quindi che la causa della modifica radicale del tessuto urbano e sociale dei centri storici non risiede negli affitti brevi. E a dirla tutta, nemmeno nell’overtourism che ne è causa. Le complesse dinamiche sociali alla radice della trasformazione della città e del suo centro storico non si risolvono con una tassa in più, peraltro in un settore come quello dell’industria turistica dove domina l’alea delle mode e delle congiunture internazionali.
Ci si sarebbe aspettato invece di leggere parole più incisive su quello che sta facendo o non sta facendo l’Amministrazione capitolina per affrontare il problema della povertà abitativa. Come anche parole più nette su quello che sta facendo o non sta facendo la Diocesi di Roma con la sua Caritas per andare incontro alla soluzione di alcuni problemi sociali e umani della città.
Entrambe le istituzioni fanno senz’altro la loro parte. Ma ci si sarebbe aspettato di conoscere meglio quale parte e quanto realisticamente si possa agire con le leve a disposizione, prima di chiedere di attingere ai soldi degli altri.
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