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Giovedì 20 Novembre 2025 07:11

In car we trust: i MAGA italiani

In car we trust: i MAGA italiani
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Abstract di Odissea Quotidiana elaborato sulla base dell'articolo di Fabrizio Napoli.
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In Italia l’automobile non è solo un mezzo di trasporto: è diventata, per molte generazioni, un simbolo identitario e un diritto percepito come intoccabile. All’ombra di questa ideologia macchinocentrica si consuma però una strage silenziosa: ogni anno migliaia di persone muoiono o restano ferite sulle strade. Negli ultimi dieci anni le vittime sono state oltre 31 mila, di cui più di 6.600 pedoni, ciclisti o utenti vulnerabili. Una guerra civile non dichiarata, combattuta ogni giorno sull’asfalto, in cui le vittime sono perlopiù civili inermi.

La sproporzione tra le parti in causa è evidente: auto, moto e scooter sono coinvolti nella quasi totalità degli incidenti, ma chi si muove a piedi o in bici ha probabilità doppia di morire o rimanere ferito. L’Italia è al 17º posto nell’Unione Europea per morti su strada, con un calo minimo rispetto a dieci anni fa. Dietro questi numeri c’è anche un fattore culturale raramente affrontato: l’ossessione per l’automobile e la convinzione che il suo uso illimitato sia un diritto naturale.

Per molti italiani il possesso e la libera circolazione dell’auto rappresentano una libertà fondamentale, da difendere contro ogni limitazione. Come i sostenitori del diritto alle armi negli Stati Uniti, i “macchinari” italiani rifiutano qualsiasi vincolo: vogliono poter guidare e parcheggiare ovunque, senza pagare costi aggiuntivi né subire restrizioni. Lo Stato, nella loro visione, dovrebbe solo agevolare questa libertà, costruendo parcheggi, strade e corsie sempre più ampie. In cambio, chiedono poco: che nessuno osi toccare la loro automobile.

Questa convinzione si trasforma spesso in una forma di fanatismo diffuso, trasversale e radicato. I “MAGA italiani” — Make Automobiles Great Again — difendono la macchina come un’estensione della propria identità. Sono perlopiù adulti nati nel secolo scorso, politicamente eterogenei ma uniti dall’antagonismo verso chiunque riduca lo spazio o i privilegi delle auto: ciclisti, pedoni, utenti del trasporto pubblico, amministrazioni comunali, perfino l’Unione Europea. Qualsiasi misura di sicurezza o di rigenerazione urbana diventa un affronto personale. La sosta vietata, un sopruso. La pista ciclabile, un’inutile complicazione. Il limite di velocità, un attacco alla libertà individuale.

Nei gruppi social o nelle proteste di quartiere si ripetono sempre gli stessi slogan: “Il Comune deve fare cassa con le multe”, “Paghiamo il bollo, abbiamo diritto a circolare”, “Non ci sono parcheggi”, “Le strade devono essere più larghe”. Un linguaggio comune che costruisce una realtà alternativa, in cui l’automobilista è vittima e non responsabile, e dove ogni incidente è una fatalità, mai la conseguenza di velocità o distrazione.

L’automobile è diventata così un’ideologia novecentesca sopravvissuta al nuovo millennio, un simbolo di emancipazione e cittadinanza piena. Per molti italiani la macchina non è solo un mezzo, ma un rito di passaggio: la patente, la prima auto, il parcheggio sotto casa sono stati i segnali di un ingresso nell’età adulta e nella società dei consumi. Come per gli americani con le armi, guidare significava appartenere, esistere, contare. E anche oggi, quando l’uso individuale dell’auto è causa di congestione e inquinamento, resta difficile rinunciare a quel totem familiare che dà sicurezza e status.

Dietro la retorica della “necessità” — accompagnare i figli, aiutare un genitore, fare la spesa — si nasconde una realtà fatta di auto con a bordo una sola persona. L’automobile è divenuta un prolungamento della casa, un piccolo spazio privato da difendere contro ogni intrusione. È anche per questo che la cultura macchinara è profondamente reazionaria e classista: difende privilegi individuali a discapito dello spazio pubblico e della sicurezza collettiva.

Fortunatamente, il blocco ideologico dei macchinari è in declino. Le nuove generazioni non associano più l’auto a status o libertà, ma la considerano un mezzo fra tanti, spesso superfluo. La generazione Z, pur con incertezze e contraddizioni, si sta muovendo verso modelli di mobilità più sostenibili e pragmatici. Eppure il peso culturale del passato resta forte, così come la resistenza di chi vede nell’auto l’ultimo baluardo della propria identità.

Uscire da questa cultura richiede un approccio politico e culturale coraggioso: ridurre lo spazio urbano destinato alle auto, rendere il loro uso economicamente proporzionato all’impatto reale, e isolare l’ideologia macchinara, smontando i suoi luoghi comuni e restituendo senso collettivo allo spazio pubblico. Serve una nuova narrazione in cui la libertà non coincida più con il volante in mano, ma con la possibilità di muoversi in sicurezza, in un ambiente vivibile e condiviso.

È, in fondo, un conflitto generazionale: chi ha vissuto la macchina come promessa di libertà difende oggi un privilegio che costa migliaia di vite ogni anno. Io, cinquantenne ed ex possessore di auto e moto, faccio il tifo per la Gen Z.


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