Lunedì 22 Dicembre 2025 21:12
Intervista a Rebecca Lighieri
“Il club dei bambini perduti” è un romanzo di Rebecca Lighieri, pseudonimo di Emmanuelle Bayamack-Tam;...
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“Il club dei bambini perduti” è un romanzo di Rebecca Lighieri, pseudonimo di Emmanuelle Bayamack-Tam; l’opera, uscita in Italia a fine ottobre, è incentrata sul rapporto tra un padre e una figlia.
In un contesto in cui viene dato largo spazio al soprannaturale, in particolare, l’autrice approfondisce l’incapacità di Armand, il protagonista, di comprendere la vera personalità e i veri bisogni di sua figlia Miranda, pur amandola moltissimo. In questo modo, la straordinaria scrittrice francese affronta il problema dei giovani appartenenti alla generazione Z, mettendo in luce l’inadeguatezza degli adulti e il loro essere sostanzialmente assenti nei confronti dei loro figli.
La scrittrice ha accettato di parlarci del suo romanzo e di molti altri argomenti.
Nelle sue opere, di solito il protagonista è molto giovane, a cominciare da quello di “La Treizième Heure”, il romanzo per cui si è aggiudicata il Prix Médicis 2022. Perché questo interesse per l’adolescenza?
Non soltanto i miei protagonisti spesso sono molto giovani, ma generalmente sono i narratori o le narratrici del racconto. É la loro percezione soggettiva che domina, e le lettrici e i lettori sono propensi a vedere le cose secondo il loro punto di vista. In realtà, mi interessa anche la vecchiaia, sono le età intermedie quelle con le quali faccio più fatica. L’adolescenza è l’età dove tutto è plastico, il corpo come lo spirito. Le metamorfosi del corpo durante la pubertà sono qualcosa che sconfina nel fantastico: si passa da un corpicino liscio, imberbe, inodore, a un corpo massiccio, granuloso, peloso, che a volte non ha un buon odore! É un’età critica, in tutti i sensi del termine. L’adolescenza è in crisi, ma è anche portatrice di uno sguardo critico e radicale sulla società. Questo mi permette di evidenziare dei disfunzionamenti della società che l’adulto non percepisce nemmeno più, o per cui non pensa più ad indignarsi. É anche l’età della fragilità. Sia come sia, sul piano narrativo l’adolescenza è una fonte di ispirazione inesauribile.
Quanto le somigliano i suoi personaggi?
Tengo l’autobiografia a distanza, con dei personaggi che possono sembrare molto lontani da me, giovani, queer, vittime di razzismo, emarginati, ma in realtà li nutro del mio proprio vissuto, presto loro idee ed azioni che sono le mie. Tutti mi assomigliano un po’, per alcuni aspetti, perfino quelli che si presentano come antipatici, come la madre in «Il club dei bambini perduti». Tuttavia, in generale mi piace andare verso l’alterità, verso ciò che mi resiste, mi disturba, e questo implica che le mie narratrici e narratori non mi somiglino. Ma in realtà siamo sempre nell’autofiction, anche se non si racconta la propria vita in modo diretto e trasparente.
In un’intervista lei ha dichiarato che scrive per disturbare i lettori, ma anche sé stessa. La letteratura riesce a scuotere le coscienze?
Dalla letteratura mi aspetto che mi sorprenda, mi spinga a farmi delle domande sui pensieri che sono abituata a fare e sui miei pregiudizi. Mi piacerebbe poterle rispondere che la letteratura può aiutare a scuotere le coscienze, ma non ne sono affatto certa. In ogni modo, mi dico che il compito della narrativa è di mettere in circolazione dei personaggi singolari e delle idee sovversive, per abituare gli animi a delle forme di alterità.
Alcune delle sue opere sono uscite con il suo vero nome, Emmanuelle Bayamack-Tam; altre con il suo pseudonimo, Rebecca Lighieri. Come decide con quale nome firmare i suoi libri?
In Francia, le mie opere sono pubblicate dal 1996 con il mio vero nome, Emmanuelle Bayamack-Tam. Ho utilizzato lo pseudonimo di Rebecca Lighieri solo a partire dal 2013. Volevo avventurarmi su dei territori narrativi nuovi (per me), in particolare quelli del thriller e del romanzo giallo. Mi volevo anche rivolgere ad un pubblico differente, forse meno vicino alla letteratura rispetto al mio pubblico abituale. Assumere uno pseudonimo mi ha disinibita, mi ha aiutata a scrivere in modo più libero e fantasioso. Da allora, alterno un Lighieri e un Bayamack-Tam. Quando è un Lighieri, c’è un determinato scenario, sto attenta all’azione, alle peripezie. Quando è un Bayamack-Tam, non ho alcun piano prestabilito, non so dove vado, e la mia attenzione si concentra soprattutto sulla frase stessa. Ma più passa il tempo e più i due tipi di scrittura si contaminano a vicenda. Forse prenderò un altro eteronimo, per completare questa fusione tra le due scritture.
A fine ottobre è uscito in Italia “Il club dei bambini perduti”. Vuole presentarci il suo romanzo?
Sono felicissima di questa pubblicazione in Italia e ancora più felice che l’avventura si faccia con la casa editrice 66thand2nd. «Il club dei bambini perduti» è un romanzo diviso in due parti: un padre prende la parola, poi è il turno di sua figlia. Questo permette alle lettrici e ai lettori di comprendere gli abissi di incomprensione tra i due. In ogni caso, spero che questo romanzo abbia un contatto diretto con il mondo e l’attualità, nella misura in cui esplora il disagio dei giovani.
La generazione Z si trova ad affrontare problemi gravissimi, talvolta insormontabili. Anche Miranda vive affrontando quotidianamente il disagio. Le sue difficoltà sono le stesse dei suoi coetanei?
Ho voluto che Miranda fosse emblematica rispetto alla sua generazione. É noto che la generazione Z sia particolarmente colpita da problemi di ansia, stati depressivi, pensieri suicidi, le ragazze in particolare. Diciamo che ho un po’ forzato le caratteristiche che la riguardano: attraversa la stessa crisi delle ragazze e i ragazzi della sua età, ma in maniera esasperata, perché è estremamente empatica e sensibile.
Chi sono “i bambini perduti” del titolo del suo romanzo?
I bambini perduti sono innanzitutto i nostri figli, che vivono in un pianeta minacciato dal cambiamento climatico, in un mondo in cui il fascismo si reinventa sotto svariate forme e dove la tendenza è al ripiegamento egoista. Il titolo fa riferimento anche a coloro che non trovano il loro posto nella società e crollano prima di diventare adulti, come Kurt Cobain, Janis Joplin o Amy Winehouse, tutti membri di un presunto club dei 27, nel quale Miranda si riconosce.
La storia è raccontata dal punto di vista di Armand, poi da quello di Miranda. Vuole parlarci di questi due personaggi e del loro rapporto?
Uno dei punti di partenza del romanzo è «La Tempesta» di Shakespeare, dramma al quale Miranda deve il suo nome. In questa pièce, un padre vive da solo su un’isola con sua figlia, e anch’io avevo voglia di focalizzarmi sulla relazione padre-figlia. Armand è un attore famoso, uno sposo appagato e un padre amorevole. Guarda crescere sua figlia con preoccupazione visto che lei non gli somiglia. Sembra spenta, introversa, priva di gioia di vivere e di slancio vitale. Armand non è riuscito a trametterle il suo slancio vitale e il suo equilibrio. Anche Miranda osserva suo padre. E lo comprende meglio di quanto faccia lui con lei. Ma bisogna anche dire che lei non gli dà i mezzi per comprenderla, visto che gli nasconde ciò che lei è veramente e tutto un pezzo della sua vita gli sfugge.
Nella sua opera ha dato largo spazio al soprannaturale. Vuole spiegarci questa scelta?
All’inizio, pensavo di scrivere un romanzo gotico. Ho rinunciato a questo progetto, ma mi è rimasto il desiderio di una rottura con la razionalità, il pragmatismo, il materialismo. Era anche un modo per ritornare alle origini, a una letteratura che ha cullato la mia infanzia e probabilmente altre infanzie oltre alla mia: i racconti, i miti, le leggende. «Il club dei bambini perduti» è anche attraversato e irrigato dalle fiabe di Andersen, quelle di Lewis Carroll, ma anche dai miti, come quello di Tiresia. Ho dotato Miranda di poteri soprannaturali, ma le lettrici e i lettori possono dirsi che lei immagina di avere questi poteri.
Il suo romanzo ha suscitato le proteste di alcuni genitori appartenenti a gruppi di estrema destra. Se lo aspettava?
Il libro compariva tra la prima selezione del Premio Goncourt 2024: dunque, si è automaticamente ritrovato in lizza per il Premio Goncourt dei Liceali, cosa che io non avevo assolutamente premeditato. Ero felice che il mio libro circolasse tra gli adolescenti, perché parla molto della gioventù e sapevo che in questo senso poteva interessarli. Alcuni comitati di genitori sono insorti perché nel libro ci sono delle scene di sesso, parla di droga e di suicidio – senza farne l’apologia, evidentemente. Ho incontrato centinaia di liceali in occasione del Premio Goncourt e mi hanno detto che hanno quotidianamente accesso, tramite Internet, a dei contenuti molto più problematici e molto più scioccanti rispetto a quelli del mio libro. Questa piccola polemica inutile illustra bene fino a che punto i genitori conoscano male il vissuto dei loro figli e desiderino conservare i paraocchi su questo argomento.
(foto di Pauline Rousseau)
Federica Focà
