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Lunedì 9 Agosto 2021 19:08

Roma in 100 film

La Città Eterna raccontata attraverso le cento più significative pellicole, che hanno portato sul grande schermo i Sette Colli: le storie, le curiosità, le immagini, le location

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Sono centinaia le pellicole che raccontano Roma. Da “La dolce Vita” di Fellini, a “La grande bellezza” di Sorrentino, passando per “Vacanze romane”, la storia del cinema italiano e internazionale è legata a doppio filo con la nostra città. Così fu fin da prima della nascita degli studi di Cinecittà, quel “tempio della cinematografia” in cui sarebbero state girate migliaia di pellicole. Non a caso, infatti, il primo film italiano della storia, realizzato nel 1905 da un pioniere della “settima arte”, il regista Filoteo Alberini, ha la Capitale fin dal suo titolo, oltre che nel suo soggetto e nella sua sceneggiatura. Parliamo di “La presa di Roma”, noto anche come “Bandiera bianca”, o come “La breccia di Porta Pia”, la prima pellicola mai proiettata in pubblico in Italia.


Emulo dei Fratelli Lumière, Alberini può essere considerato il primo grande regista italiano. Nato a Orte nel 1865, ma trasferitosi ben presto a Roma, Alberini era affascinato dalla nuova invenzione e perciò, nel 1904, insieme all’amico Dante Santoni, nel quartiere di San Giovanni, fondò la ditta “Primo Stabilimento Italiano di Manifattura Cinematografica Alberini e Santoni”, che nel 1906 cambierà nome in “Cines”. Nel 1904, sempre a Roma, a piazza Esedra, aprì il cinema “Moderno”, prima sala di proiezione della capitale. L’anno dopo iniziò a girare i suoi primi film.

La prima proiezione pubblica ufficiale di “La presa di Roma”, ebbe luogo il 20 settembre del 1905, in occasione del trentacinquesimo anniversario degli eventi narrati sullo schermo. L’opera, originariamente della durata di circa dieci minuti (di cui attualmente ne restano visibili solo quattro), racconta, in diversi quadri, i fatti che portarono alla conquista dell’Urbe da parte dell’esercito italiano, dopo i vani tentativi di mediazione con le truppe papaline, Le scene in esterno vennero tutte girate dal vero, a conferire maggiore autenticità alla narrazione. Nel 2005, anno del suo centenario, grazie al Centro Sperimentale di Cinematografia, il film ha subito un efficace restauro.

 

Il docufilm del 2020, diretto da Alex Infascelli, non è semplicemente il racconto della vita e della carriera di un calciatore che per oltre un ventennio è stato la bandiera della squadra che di Roma porta il nome. “Mi chiamo Francesco Totti” è una sorta di inno alla romanità, espresso attraverso la vicenda personale di un romano famoso ed esemplare, che riesce a colpire anche chi non è mai stato tifoso romanista, o non ha mai amato il calcio.


Si parte dai filmati amatoriali d’epoca, di quando un Totti bambino prendeva a calci, sulla spiaggia di Torvaianica, un pallone che pareva più grande di lui. Si passa poi attraverso le immagini di tutta una lunga carriera, percorsa sempre con la stessa maglia, come accadeva solo ai calciatori di altre epoche e oggi non accade più, dimostrando in questo che Totti, proprio come il più autentico spirito dei romani, viene da un passato antico, eroico e immortale, anche se vissuto nella semplice quotidianità del presente.

Per chi è tifoso, o semplice appassionato di calcio, si rivedono le immagini dei festeggiamenti al Circo Massimo per lo scudetto del 2001, oltre a quelle del famoso rigore a “cucchiaio” in Italia-Olanda del 2000, o dei mondiali di Berlino 2006. Per tutti gli altri, che tifosi non sono, si gode della simpatia spontanea e a tratti ruvida e grezza di quell’ex calciatore, della sua umanità, della sua vulnerabilità, di un uomo che si racconta in prima persona e, con se stesso, racconta Roma e la romanità.

Ma il documentario è anche un film e, come accade nei film, per ogni eroe buono – e Totti a suo modo lo è – c’è anche sempre un antagonista, impersonato in questa pellicola da Luciano Spalletti, il suo ultimo allenatore, nell’involontario ruolo del cattivo. Ma soprattutto c’è Roma, con il quartiere d’infanzia, gli amici, i tifosi, la famiglia, lo Stadio Olimpico, il Colosseo, in un gioco di rimandi fra vita pubblico e privata, fra contemporaneità e romanità arcaica, che finisce per colpire il cuore dello spettatore.

 

Quarto film di Carlo Verdone, datato 1983, di cui egli firma la regia e la sceneggiatura, oltre a esserne l’attore protagonista. È anche il secondo film, dopo “Bianco, Rosso e Verdone”, in cui, a vestire i panni della nonna di Verdone, è una donna che ha incarnato il prototipo dello spirito romanesco più verace, la quintessenza della Roma più autentica e popolare: quell’Elena Fabrizi, meglio nota come la Sora Lella, sorella del grande Aldo.


La storia raccontata è quella di un trentenne laureato col massimo dei voti, Rolando Ferrazza, costretto però a fare il bidello e ad arrotondare lo stipendio tenendo delle ripetizioni d’italiano per stranieri, che, per alcune coincidenze fortuite, si trova a fingersi il noto teologo padre Michael Spinetti e a divenire l’insegnante personale di una giovanissima modella americana, Sandy Walsh, interpretata da Natasha Hovey, giunta a Roma per una serie di sfilate. Fra i due nascerà un affetto sempre più intimo, mentre passeranno ore a girare liberi per la città, dimenticando di doversi applicare nello studio. Alla fine, però, l’inganno verrà scoperto e i due finiranno per separarsi.

Roma è presentata, in questa pellicola, non solo attraverso la verace romanità della Sora Lella, ma anche dalle immagini che fanno da sfondo e da cornice. C’è Testaccio, il quartiere in cui Verdone e sua nonna abitano, in un appartamento che, curiosamente, è davvero all’indirizzo detto in una delle scene. La villa in cui vive Sandy è invece in una zona più periferica, per la precisione in via di Grottarossa, non distante dalla Cassia, dove sono girate diverse scene della pellicola, come quella in cui Verdone si trova ad aspettare un bus in piena campagna. Una scena è poi ambientata nel vecchio Drive In di Casalpalocco, oggi chiuso, mentre un’altra è girata accanto alle piste dell’Aeroporto di Fiumicino.

 

Grazie a questo film del 1942, diretto da Mario Bonnard, il protagonista Aldo Fabrizi, all’epoca esordiente sul grande schermo, comincerà una carriera cinematografica che lo renderà famoso in tutto il mondo e non più solo nei teatri di rivista della Capitale. Come suggerito dal titolo, è il racconto delle vicende di un bigliettaio del trasporto pubblico romano, di quell’azienda allora chiamata ATAG (Azienda Tranvie e Autobus del Governatorato), destinata due anni più tardi a trasformarsi in ATAC (Azienda Tranvie e Autobus del Comune), il nome che mantiene a tutt’oggi.


Cesare (Aldo Fabrizi) si troverà ad assistere la giovane Rosetta, vittima su un filobus del furto di alcuni soldi da lei tenuti nella borsetta. I padroni della casa in cui Rosetta lavora come cameriera, saputo del furto e non ritenendola più affidabile, la cacciano via. Sarà allora proprio il bigliettaio ad aiutarla a trovare una nuova sistemazione. Cesare si è infatti innamorato della bella Rosetta, un amore che lei ricambia con un affetto quasi filiale, data la differenza d’età. Ben presto, però, il bigliettaio scoprirà che Rosetta è in realtà innamorata del suo più giovane e prestante collega Bruno. Perciò, pur con la morte nel cuore, Cesare deciderà di aiutare i due ragazzi a coronare il proprio amore. Nel finale del film Bruno verrà comunque richiamato al fronte, un evento questo che fa entrare nella vicenda la feroce guerra allora in corso, fino a quel momento poco presente nella storia.

La sceneggiatura di questa pellicola è scritta, oltre che dallo stesso Fabrizi, anche da una firma del calibro di Cesare Zavattini e da un misterioso Federico, che, pur non essendo ufficialmente accreditato, stranamente appare nei titoli del film, ma senza il suo cognome, un cognome destinato a divenire molto famoso: Fellini.

È anche attraverso il percorso dei filobus su cui Fabrizi lavora, che con questo lavoro cinematografico si conosce meglio la Roma di quegli anni. Si va dalla Montesacro in cui è collocato uno dei capolinea, nei pressi di Ponte Nomentano, a via della Conciliazione, allora in fase di costruzione, a piazza Risorgimento, un luogo di Roma che ancora oggi fa da capolinea per alcuni tram e bus dell’azienda di trasporto pubblico. La scena della sfilata delle truppe in partenza per il fronte, è invece girata in via Palestro, non distante dalla Stazione Termini.

 

È una sorta di “Notte prima degli esami” vent’anni dopo, quella che racconta Paolo Genovese nel suo film del 2011 “Immaturi”, opera che ha meritato sia un sequel (“Immaturi – il viaggio”) sia un’omonima serie televisiva. Lo spunto di partenza è un errore burocratico, per il quale un gruppo di quarantenni, ex compagni di scuola del Liceo Giulio Cesare di Roma (liceo realmente frequentato dal regista), si ritrova a dover nuovamente affrontare l’esame di maturità, essendo nullo quello fatto più di vent’anni prima.


Con un cast che comprende, tra gli altri, Raoul Bova, Barbora Bobuľová, Ambra Angiolini, Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Ricky Memphis – nei panni dei diversi ex compagni di classe, ciascuno con la sua vita, i suoi problemi, le sue paranoie, sviluppatesi nel corso dei successivi decenni e ai quali l’inattesa necessità di tornare sui banchi di scuola, permetterà di rinsaldare l’antica amicizia – il film è una sorta di altalena fra presente e ricordi di un ormai lontano passato da liceali, rinverdito dai racconti e dalle confessioni che via via vengono scambiate fra i protagonisti.

Girato fra Roma e Sabaudia, dove è la villa in cui il gruppo va a ritirarsi per concentrarsi meglio sullo studio, nei giorni precedenti l’esame, è soprattutto una Roma molto centrale quella che appare nel film, compresa fra Trastevere e il rione Monti. Il ristorante in cui lavora Ambra Angiolini è un vero ristorante romano, sito in Piazza Forlanini, zona in cui nella pellicola, all’interno dell’ospedale Forlanini, lavora come psichiatra Raoul Bova. La scuola frequentata dalla figlia della Bobuľová è invece nel quartiere Della Vittoria, poco distante dalla sede della Rai. A proposito di scuola, la grande curiosità è che le scene all’interno del liceo, quello in cui i protagonisti ripetono il famigerato esame, non sono girate al Giulio Cesare, come si potrebbe pensare, ma in un altro liceo romano, forse altrettanto famoso: il Mamiani di viale delle Milizie.

 

Più di trent’anni prima de “La grande bellezza” di Sorrentino, c’è un’altra grande terrazza romana, frequentata dall’agiata intellighenzia di sinistra, che viene rappresentata al cinema. Parliamo di un film del 1980, diretto da Ettore Scola, intitolato appunto “La terrazza”, interpretato, tra gli altri, da Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Stefania Sandrelli.


Su una terrazza romana si incontrano periodicamente alcuni vecchi amici e colleghi. Il film presenta uno di questi incontri e racconta i fatti in cinque diversi episodi, narrati ciascuno secondo i cinque punti di vista differenti dei vari protagonisti. Il primo episodio presenta le vicende di uno scrittore cinematografico in crisi creativa (Jean-Louis Trintignant). Il secondo è quello di un giornalista, ormai vecchio stile, che cerca di riconquistare la propria moglie (Marcello Mastroianni). Il terzo è quello di un funzionario della Rai in forte crisi depressiva (Serge Reggiani). Il quarto narra di un produttore cinematografico alle prese con i capricci della consorte (Ugo Tognazzi). L’ultimo parla di un deputato del Partito Comunista Italiano (Vittorio Gassman), che ha una relazione extraconiugale con il personaggio interpretato da Stefania Sandrelli, con cui però ama pubblicamente battibeccare (e qui il legame col Jep Gambardella de “La grande bellezza”, che in quel film massacra verbalmente Stefania su una terrazza romana, per poi chiederle a quattr’occhi di fare l’amore, sembra innegabile).

“È pronto! Venite”. Questo è il tormentone che apre il film ed è anche la frase che risuona ogni qualvolta si apre un nuovo episodio. Oltre agli interni, in cui si svolgono le cene, le immagini in esterno de “La terrazza” sono tutte girate a Roma: da piazzale delle Belle Arti, al Foro, a via Monte Zebio, oltre al quasi immancabile Gazometro (sfondo molto amato dai registi italiani) e a una villa di Casal Lumbroso, in cui nella pellicola viene collocata l’abitazione di Ugo Tognazzi.

 

Terzo film della saga, iniziata nel 1996 da Brian De Palma, è stato diretto nel 2006 da J. J. Adams e interpretato da Tom Cruise, nei panni di Etham Hunt, agente della IMF, la Impossible Mission Force, una sezione segreta della CIA incaricata di svolgere le missioni ritenute più delicate e pericolose. Gli anni sono però passati dalla sua prima missione e Hunt, in questo terzo film, sembra ormai fuori dal giro operativo, con l’unico incarico di addestrare nuove reclute.


Ovviamente gli eventi cambieranno questo schema e porteranno Hunt a partecipare a una nuova azione in Europa, per liberare Lindsey Farris, una sua ex allieva catturata a Berlino da un’organizzazione terroristica. Lindsey muore durante il tentativo di liberarla e Hunt comincia la caccia agli assassini, una caccia che lo porterà prima in Vaticano e poi a Shangai, dove i terroristi hanno anche rapito e portato la sua fidanzata, in una rincorsa in tutto il mondo per fermare il male, che fa di Etham Hunt una sorta di versione statunitense della più famosa spia al servizio di Sua Maestà: il britannico James Bond.

Proprio come accadrà per James Bond nove anni dopo – nel 2015, durante la produzione di “Spectre” -anche per le riprese di “Mission: Impossible III”, il centro di Roma fu per qualche settimana paralizzato per la realizzazione di questo film, sebbene solo una parte delle scene ambientate a Roma siano state realmente girate nella Capitale. Se il grande ingorgo che si vede a un certo punto della pellicola è davvero ripreso nei pressi di San Pietro, in viale del Vaticano, già l’ingresso alla città del Papa è ambientato in una strada che è sì al centro di Roma, però distante da San Pietro, come via della Pilotta, mentre gli interni delle stanze papali sono stati tutti girati nella Reggia di Caserta.

 

La storia d’Italia, dalla seconda guerra mondiale agli anni sessanta, vista attraverso gli occhi e le vicende di un italiano qualunque, che si ritrova, suo malgrado, protagonista a volte, altre volte spettatore dei grandi cambiamenti che avvengono in quegli anni. È questo il filo conduttore di “Una vita difficile”, film del 1961, diretto da Dino Risi e che ha fra i suoi interpreti Alberto Sordi, il protagonista, e Lea Massari, nel ruolo di sua moglie.


Silvio Magnozzi, questo il nome del personaggio interpretato da Sordi, è un sottufficiale dell’esercito regio, che si unisce ai partigiani dopo l’otto settembre. È in questo momento che conosce Elena (Lea Massari) che gli salva la vita, colpendo con un ferro da stiro un soldato tedesco che voleva ucciderlo. I due si innamorano e dopo la guerra si trasferiscono a Roma, dove Silvio lavora, sottopagato, come giornalista in un quotidiano vicino al Partito Comunista. Silvio è orgogliosamente convinto delle proprie idee politiche di sinistra e non pare disposto ad accettare nessun compromesso, ma questo lo porterà ad affrontare una vita di stenti e di difficoltà economiche, che provocherà anche numerose liti e la separazione con Silvia, mentre tutt’intorno il nascente boom, accettato in modo più malleabile da alcuni suoi ex compagni di lotta, trasforma la società.

Girato anche sul lago di Como e in Versilia, nella lunga parte ambientata a Roma, il film ci presenta sia la città più aristocratica – memorabile la scena della cena a casa di alcuni nobili monarchici, nel giorno del referendum fra monarchia e repubblica, realizzata in via della Tribuna dei Campitelli, in centro storico – sia quella più popolare, ma comunque centrale, dei primi anni del dopoguerra, con scene girate in via Tor di Nona, in piazza Campitelli, in vicolo degli Amatriciani, nel carcere minorile di San Michele a Ripa.

Tra le curiosità della pellicola, oltre ai cameo di Alessandro Blasetti, Silvana Mangano e Vittorio Gassman, che appaiono nel ruolo di loro stessi, quando Sordi tenta loro di proporre un suo soggetto per un film, c’è la particolarità del soldato tedesco colpito da Lea Massari: il suo vero nome è Borante Domizlaff e durante la seconda guerra mondiale fu realmente un militare tedesco, che partecipò anche all’eccidio delle Fosse Ardeatine, venendo per questo processato dopo la guerra, in un giudizio che si concluse però con la sua assoluzione.

 

Film cult del 1983, diretto da Claudio Caligari, il cui titolo è divenuto quasi un’espressione idiomatica per indicare il mondo delle tossicodipendenze. Racconta la quotidianità di un gruppo di ragazzi romani che vivono le proprie esistenze, quasi ai margini della società, tra Ostia e il quartiere di Centocelle, tra emozioni e spaccio, litigate, rapine e furti per procurarsi il denaro e le dosi, complicità e sentimenti, consumo di stupefacenti, problemi con la polizia, in una sorta di cupa routine, in cui la speranza e il desiderio di disintossicarsi, per cambiare vita, è una luce fioca e quasi impercettibile.


Riprendendo uno degli schemi principali della più classica tradizione neorealista, Caligari sceglie come interpreti della pellicola esclusivamente dei ragazzi che hanno realmente avuto problemi di tossicodipendenza, oltre a proporre un tipo di narrazione quasi documentaristica, piuttosto innovativa e spiazzante per l’epoca, che oggi verrebbe definita quasi da “docufilm”. Questa scelta ha però creato alcuni problemi logistici alla realizzazione del lavoro: a volte alcuni degli interpreti non erano reperibili il giorno delle riprese, o perché arrestati per reati derivanti dalla loro situazione, o perché colti da improvvise crisi di astinenza, o da altre problematiche legate alla loro tossicodipendenza. Come raccontò lo stesso Caligari in un’intervista, per questo, in alcune scene, la parte di Loredana fu necessario farla interpretare da un’attrice diversa.

Caratterizzato anche dall’uso di un linguaggio spontaneo e popolare, spesso volgare, ai limiti del blasfemo, che è stato poi oggetto di approfonditi studi linguistici, il film, bersagliato da alcune polemiche alla sua uscita, nel corso degli anni è diventato un oggetto di culto, spesso citato in altre opere artistiche, sia cinematografiche, sia musicali, sia letterarie. Pasoliniano nello stile, oltre che nelle esplicite citazioni (la scena finale è girata proprio davanti al monumento eretto a Pasolini all’Idroscalo, nel luogo della sua morte), è riuscito a fare di Ostia, che fa da sfondo alla maggior parte delle scene, la vera protagonista della vicenda. Per questo ancora oggi è un film molto amato, ma anche molto odiato dai lidensi, per via di quell’aura negativa e amara, “tossica” per l’appunto, che di riflesso e direi anche involontariamente, ha finito per gettare sull’immagine del quartiere.

 

Film di Luciano Emmer del 1952, che ha fornito anche la traccia per un’omonima serie televisiva andata in onda sulla Rai negli anni novanta. È la storia di tre belle ragazze che lavorano come sarte in un’importante casa di moda, interpretate da Lucia Bosè, Cosetta Greco e Liliana Bonfatti. Vengono tutte da famiglie piuttosto povere e sognano di sistemarsi con un matrimonio felice. Le loro vicende sono narrate da un professore, che lavora presso la biblioteca della casa-museo di John Keats e da lì le osserva dalla finestra.


Marisa (Lucia Bosè) è una ragazza alta, slanciata e davvero molto bella, perciò le viene proposto di fare la modella. Visto il parere contrario del padre e del fidanzato, che non vogliono che lei accetti quest’offerta, grazie alla complicità della madre, Marisa riesce a scappare di casa per non lasciarsi sfuggire l’opportunità. Elena (Cosetta Greco) è orfana di padre e quando la madre riceverà una proposta di matrimonio da un ferroviere, anch’egli vedovo, si troverà a discutere col fidanzato, un ragioniere ossessionato dall’onorabilità, che trova disdicevole quel matrimonio in età avanzata. Infine Lucia (Liliana Bonfatti) è alla spasmodica ricerca di un fidanzato molto alto.

Nelle loro vite entrerà poi anche un tassista, che le osserva da lontano e si innamora di una di loro, interpretato da Marcello Mastroianni. Fra le curiosità di questa pellicola, c’è da notare che la voce del tassista non è quella del suo interprete. A riguardare oggi il film, fa infatti un certo effetto vedere Mastroianni che parla con la voce di Nino Manfredi, che gli fa da doppiatore.

Nonostante il titolo, non c’è solo la Roma centrale di piazza di Spagna tra le location di questa pellicola. La casa dove abita Marisa è alla Garbatella e in quel quartiere vengono girate diverse scene del film. Lucia vive invece in una zona non distante da Ciampino, alle Capannelle, altro quartiere che appare spesso nelle immagini.

 

È la Roma segreta del Conclave e delle stanze Vaticane, quella raccontata in questo film di Nanni Moretti del 2011, un’opera definita da molti “profetica”, quando, due anni dopo, Joseph Ratzinger, ovvero Papa Benedetto XVI, deciderà nel 2013, con una mossa clamorosa e da secoli senza precedenti, di dimettersi dal proprio incarico, come il protagonista di questa pellicola.


La vicenda narra dell’elezione a Sommo Pontefice del cardinale Melville (Michel Piccoli), che però, prima di presentarsi alla folla radunata per acclamarlo in piazza San Pietro, ha un attacco di panico e fugge nello sconcerto generale. Per risolvere la delicatissima questione, il collegio cardinalizio chiama allora in Vaticano uno stimato psicanalista, il dottor Brezzi, interpretato dallo stesso Nanni Moretti, con il compito di comprendere le motivazioni che hanno portato il neo eletto Papa a tale destabilizzante comportamento. Dopo varie ipotesi, formulate anche con l’aiuto della moglie e collega di brezzi, interpretata da Margherita Buy, il cardinale Melville deciderà finalmente di presentarsi alla folla nella tradizionale veste bianca papale, ma poco dopo si dimetterà dall’incarico.

Nonostante la stessa Radio Vaticana abbia certificato che il film offre un’attenta e fedele ricostruzione del Conclave e degli ambienti in cui esso si svolge, c’è da dire che la pellicola non è stata girata realmente in Vaticano, ma in altri luoghi di Roma e dei dintorni della Capitale, che per architetture e atmosfere possono ricordarlo. Quelli che vengono presentati come i Giardini Vaticani, sono, ad esempio, i giardini di Villa Lante, a Bagnaia, in provincia di Viterbo. La scalinata che i cardinali percorrono per raggiungere la Cappella Sistina è la scala esterna di Palazzo Barberini, mentre i cortili in cui i cardinali si riuniscono sono quelli di Palazzo Farnese. Le mura Leonine che circondano il Vaticano sono poi quelle Aureliane, nei pressi di Porta Latina, infine le scene ambientate all’interno della Cappella Sistina, sono state ricostruite in studio.

 

“Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo” – questo il titolo completo – presenta un “poker d’assi”, come lo definì la pubblicità dell’epoca, costituito da Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, Gino Cervi e Peppino De Filippo, che indossò la divisa, per interpretare questo film del 1956, diretto da Mauro Bolognini. È la storia di quattro vigili urbani, la guardia, la guardia scelta, il brigadiere e il maresciallo del titolo, che a Roma si misurano con le difficoltà del proprio lavoro e con l’opinione, spesso negativa, dei romani, poco inclini alla benevolenza nei confronti della loro categoria.


A fare da scenografia per questa pellicola c’è soprattutto la Roma storica e centrale: piazza Barberini, via del Tritone, San Giovanni, via Panisperna, oltre al crocevia fra via del Corso, Piazza Venezia e via Nazionale, per decenni regno incontrastato dei pizzardoni romani.

La vicenda raccontata è piuttosto esile, ma è sostenuta dall’ottimo cast e da alcune gag rimaste memorabili, come quella in cui Alberto Sordi è costretto a sostenere un esame di francese e si arrampica sugli specchi, soprattutto quando deve
tradurre la parola “zia”.
Tra le curiosità del film c’è la presenza di un ancora giovane Mario Brega, in un piccolo ruolo di pugile che appare per qualche istante in alcune scene. In piccoli ruoli appaiono anche altri noti caratteristi del cinema italiano, come Memmo Carotenuto e Riccardo Garrone, oltre alla partecipazione, in un ruolo più centrale, di Nino Manfredi.

 

“Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” è l’interminabile titolo completo, quasi alla Lina Wertmuller, per un poco noto film del 2010, diretto da Isotta Toso e tratto dall’omonimo romanzo di Amara Lakhous, uno scrittore algerino che ha vissuto per molti anni a Roma. La vicenda ha il sapore di un giallo: in un condominio di Piazza Vittorio viene ucciso un uomo soprannominato “il gladiatore”.


Tra i sospettati ci sono tutti gli abitanti di quel palazzo multietnico in cui viveva la vittima, un luogo popolato non solo da molti stranieri, ma in cui persino alcuni degli italiani presenti possono essere considerati “immigrati”: dalla portinaia napoletana, interpretata da Isa Danieli, a chi è arrivato dal nord e ha dovuto trasferirsi a Roma pur odiando la Capitale, come il personaggio i cui panni sono vestiti da Roberto Citan.

La vicenda è ovviamente lo spunto per raccontare, a metà fra dramma e ironia, la difficile convivenza fra diverse etnie, in quel quartiere Esquilino, che fa da cornice alla storia narrata nella pellicola e che da diverso tempo è divenuto il simbolo della nuova Roma cosmopolita. Profonde differenze culturali, religiose, di modi di intendere la vita, creano scontri quotidiani, dando vita a malintesi, violenze, provocazioni e diffidenze. In questo clima, le vite di personaggi molto diversi fra loro, finiscono per unirsi in un unico racconto. Il cast del film è di tutto rispetto e comprende attori come Kasia Smutniak, Daniele Liotti, Serra Yılmaz (la “musa” di molti film di Ferzan Okpetek), Milena Vukotic, Francesco Pannofino, Ninetto Davoli.

 

La borgata di Pietralata, prima ancora di una splendida Anna Magnani, premiata quell’anno a Venezia come migliore attrice proprio per questa sua interpretazione, è la protagonista di questo film di Luigi Zampa, del 1947. È lì che vive Angelina Bianchi (interpretata dalla Magnani), insieme ad altre numerose famiglie, dentro minuscole case fatiscenti, costruite su un terreno a rischio idrogeologico. Per difendere e riscattare se stessa e chi vive nella sua stessa condizione, Angelina tirerà fuori il proprio spirito battagliero, proprio quasi di una sindacalista, di una politica, avviando lotte per migliorare le condizioni di vita del quartiere, di cui diverrà la paladina.


Improvvisamente tutti gli abitanti del quartiere si ritrovano senza casa per via di un’alluvione gli abitanti della borgata si ritrovano senza casa e Angelina, guida allora l’occupazione dei nuovi eleganti fabbricati che un certo Commendator Garrone sta facendo costruire nelle vicinanze. Dopo varie vicissitudini e avendo avuto rassicurazioni da Garrone che alla fine dei lavori saranno loro assegnati quegli appartamenti, Angelina mette fine all’occupazione. Ben presto si renderà conto di essere stata ingannata dal ricco imprenditore, che una volta scampato il pericolo, ha ben altre intenzioni. Sarà il figlio del Commendatore, interpretato da un giovane Franco Zeffirelli, a intercedere e a convincere il padre a rispettare i suoi impegni.

Del cast fa parte anche Ave Ninchi, che si trova spesso e in modo credibile, in quegli anni, a vestire i panni di popolane romane, nonostante le sue origini marchigiane. Le squallide casupole della borgata, quelle in cui negli anni quaranta erano finite a vivere molte persone allontanate da Borgo e dal centro storico di Roma, dopo gli sventramenti del ventennio, oggi non esistono più in quell’area di Pietralata, sostituite da palazzine più moderne. Esistono ancora, invece, le “nuove” case in costruzione occupate da Angelina e dai suoi: sono fra via Val Trompia e via dei Campi Flegrei, nella zona di Sacco Pastore, a pochi passi dalla via Nomentana. Ma nelle inquadrature da lontano del film, quegli stessi palazzi sono in realtà altri, in tutt’altra zona della città: a Roma sud, accanto a via Cristoforo Colombo, all’altezza di via Costantino, altra zona all’epoca in costruzione.

 

Er più, storia d’amore e de coltello”, titolo completo del film diretto nel 1971 da Sergio Corbucci e noto semplicemente come “Er più”, è la seconda di una serie di pellicole, preceduta nel ’68 da “Serafino” e seguita nel ’73 da “Rugantino”, che vedono Adriano Celentano vestire i panni d’improbabili personaggi romaneschi di una Roma sparita e popolare. Il suo accento romano stentato e inverosimile, negli anni varrà al molleggiato diverse parodie, fra cui quella forse più riuscita è opera dell’attore comico
Max Tortora
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La storia raccontata nel film “Er più” prende liberamente spunto dal personaggio di Romeo Ottaviani, un bullo trasteverino realmente vissuto fra la fine dell’ottocento e i primi del novecento. Nel film “Er più”, il bullo si chiama Nino Patroni e non è trasteverino, ma è un pescivendolo di Borgo appena uscito di galera, fidanzato con la bellissima Rosa Turbine, detta Rosetta (Claudia Mori). Er più è in sfida perenne con un altro bullo, boss del quartiere di San Giovanni, Augustarello e anche con un altro ambiguo personaggio, segretamente innamorato di Rosetta, detto “Er cinese” e interpretato da Vittorio Caprioli. Tra rivalità, sbruffonate, gelosie e coltellate, la vicenda finirà per avere un finale tragico.

La curiosità di questo “romanissimo” film, è che, a parte gli interni e alcune immagini riprese nella zona di Trastevere a alla Villa dei Quintili, sull’Appia, quasi tutto il resto della pellicola è romano tanto quanto lo è l’Adriano Celentano che veste i panni del protagonista. La Roma primi novecento è infatti quasi interamente ricreata a Nepi, in provincia di Viterbo, dove è il grande acquedotto romano che fa da sfondo in numerose scene, il fontanone dove le popolane romane portano a lavare i panni, nonché il piazzale del duello finale.

 

Nel 1963, un anno dopo “Il sorpasso” di Dino Risi, la coppia Vittorio Gassman e Jean Louis Trintignan viene riproposta al cinema, per tentare di bissare il successo di quel film. E “Il successo” è per l’appunto il titolo della pellicola, la cui regia è firmata da Mauro Morassi, anche se buona parte delle riprese furono dirette proprio da Dino Risi, il cui nome però non appare accreditato nei titoli. Del cast fanno parte anche Anouk Aimée, nel ruolo di Laura, la moglie di Vittorio Gassman e Riccardo Garrone, nei panni di Giancarlo, ex fiamma di Laura.


Giulio Cerioni (Vittorio Gassman) è un intellettuale, amico di Sergio (Jean Louis Trintignan). Cerioni appare felicemente sposato con Laura (Anouk Aimée) ma è un uomo insoddisfatto, che cerca di realizzare una scalata sociale, provando a partecipare a una grossa speculazione edilizia in Sardegna. Non avendo il denaro necessario, Giulio chiede dei prestiti ad alcune vecchie conoscenze. Per farlo finirà però per perdere ogni dignità. Quando riuscirà ad ottenere il denaro che gli serviva, scoprirà di non avere più attorno né familiari né amici, quelli che avevano apprezzato e amato il vecchio intellettuale squattrinato e non il nuovo Giulio, benestante ma freddo.

Il film è quasi interamente girato a Roma e nei suoi dintorni, da Fiumicino, a Ostia, sullo stabilimento Kursaal, ad Anzio, dove è curiosamente collocato il nuraghe sardo oggetto della speculazione edilizia, che nella realtà è l’antica Torre delle Caldane. Nelle immagini non c’è tanto la Roma più centrale e turistica, quanto piuttosto i quartieri bene della Capitale di quegli anni, sia quelli di Roma sud, come l’Eur, dove Gassman ha il suo ufficio e dove avrà anche la sua villa, una volta ottenuto il successo economico, sia quelli di Roma nord, da Parioli al quartiere Africano e Trieste, fino al Polo Club di via dei Campi Sportivi, un circolo d’equitazione romano a tutt’oggi esistente.

 

“When in Rome”, titolo originale di quello che in Italia è stato conosciuto come “La fontana dell’amore”, è un film del 2010, diretto da Mark Steven Johnson e interpretato da Kristen Bell e Josh Duhamel. Riprende, aggiornandole ai tempi, le storie e lo stile delle commedie romantiche americane degli anni cinquanta, di ambientazione romana, quelle come “Vacanze romane” e soprattutto come “Tre soldi nella fontana”, di cui sembra quasi un remake.


Però stavolta Fontana di Trevi, che pure appare in diverse scene del film, non è la protagonista segreta, quella che fa scattare l’idillio d’amore fra i protagonisti. La fontana di cui si parla nel titolo è infatti una piccola fontana in stile neoclassico, totalmente di fantasia e collocata dagli scenografi in piazza della Fontanella Borghese, appositamente per le riprese. La leggenda narrata nel film vuole che, prendendo delle monete gettate in quella fontana, gli originari proprietari di quelle monete si innamoreranno di chi le ha raccolte.

È quanto accade a Beth, la protagonista, giunta a Roma da New York per partecipare al matrimonio della sorella e che, da quel momento, sarà importunata da una serie di improbabili corteggiatori, che avevano lanciato le proprie monete in quella fontana leggendaria. Fra i corteggiatori c’è anche Nick, di cui lei è innamorata, ma di cui Beth respingerà le avances, credendo che il suo interesse dipenda solo dal meccanismo magico della fontana. Ovviamente, nell’immancabile happy end, Beth scoprirà che Nick non ha mai lanciato nessuna moneta e che è davvero innamorato di lei. Il tutto, incorniciato dalle belle immagini di una Roma solare, romantica e turistica, coerente con l’atmosfera del film.

 

Il film di Paolo Virzì, del 2018, è un mix d’invenzione e di ricordi autobiografici del regista livornese, giunto realmente a Roma dalla provincia, carico di speranze e di curiosità, come i tre protagonisti del racconto. Il tutto è mescolato ad una sorta di giallo che funge da leva narrativa. Siamo nell’estate del campionato del mondo di Italia ’90 e il 3 luglio, durante la semifinale fra Italia e Argentina, un noto produttore cinematografico, interpretato da Giancarlo Giannini, viene trovato morto nelle acque del Tevere. I principali sospettati dell’omicidio sono tre giovani aspiranti sceneggiatori, che, nel corso di quella notte in caserma, ripercorrono il loro viaggio di scoperta nel mondo del cinema italiano.


Sono gli anni in cui il grande cinema italiano del secondo dopoguerra, sebbene molti dei suoi protagonisti, da Fellini ad Antonioni, fossero ancora vivi, è in forte fase di declino. Ed è questo declino che Virzì ci narra, visto attraverso gli occhi di quei tre giovani cinefili, pieni di illusioni. Ne risulta una Roma grottesca e a tratti patetica, col suo mondo dello spettacolo che pare quasi la parodia di se stesso: “La realtà che osservai quando arrivai a vent’anni – ha dichiarato il regista in un’intervista – era molto più eccessiva di quella che racconto, tra sublime e volgarissimo, ma fu la cosa che mi fece dire: Roma voglio stare qui tutta la vita!”

Il tutto è narrato con sullo sfondo quell’incontro Italia-Argentina, perso dall’Italia ai rigori, che funge quasi da metafora della storia, riprendendo in questo, traducendola in chiave italiana, l’analoga scelta di usare i mondiali del ’90 quale simbolo, fatta alcuni anni prima dal film tedesco “Goodbye Lenin”. Molto curata la fotografia, che permette di dare un tocco davvero “magico”, parafrasando il titolo del film, alle immagini di una Roma che è sì da cartolina, ma non banale, resa con immagini dei suoi panorami, spesso colti al tramonto o all’alba, ricchi perciò di luci suggestive ed evocative, che aggiungono un tocco di poesia alla narrazione.

 

Diretto nel 1995 da Ettore Scola, è il racconto dello strano rapporto di amicizia e complicità fra due uomini: Vincenzo Persico, interpretato da Rolando Ravello, un giovane disoccupato laureato in lettere, frustrato e insoddisfatto, a causa del carattere apprensivo e opprimente della madre con cui lui continua a vivere, e l’anziano signor Bartoloni, interpretato da Alberto Sordi, a sua volta oppresso, ma dalla moglie, che un tempo era una bellissima soubrette dal nome d’arte di Karline Ananas, ma è ora invecchiata e, divenuta obesa e alcolizzata, nutre una patologica gelosia.


I due amici vivono nello stesso grande condominio romano, cominciano a frequentarsi sempre più spesso, con sempre maggiore intimità e, un po’ sul serio e un po’ per gioco, cominciano anche a chiedersi se non sia il caso di collaborare per uccidere le donne che causano le reciproche infelicità. Perciò, quando Karline verrà davvero trovata morta, poiché Bartoloni ha un alibi piuttosto solido, Persico verrà arrestato con l’accusa di omicidio, Nonostante molti indizi lascerebbero supporre la sua innocenza, il giovane non fa nulla per essere rilasciato, preferendo accettare la vita in carcere piuttosto che tornare a quella con sua madre.

Con la partecipazione di Isabella Ferrari, nel ruolo della fidanzata di Persico, con Mario Carotenuto, nella sua ultima apparizione cinematografica prima della scomparsa, con i cameo di Nathalie Caldonazzo, nel ruolo della giovane Karline, e di Barbara D’Urso, il film è quasi interamente girato all’interno del Palazzo Federici, l’enorme complesso romano di viale XXI Aprile, in cui Scola ha ambientato anche “Una giornata particolare”.

 

“Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata”. In questa frase del film “Favolacce” è già contenuto il suo spirito: quello di un racconto cupo e ambivalente, dall’apparenza piana e tranquilla ma dallo sviluppo tragico e inquietante, come tragico e inquietante, sotto un apparente velo di normalità, appare il destino delle famiglie della piccola borghesia romana protagoniste della storia.


Realizzato nel 2020 dai fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, con Elio Germano tra gli attori protagonisti, grazie al meccanismo narrativo della scoperta di un diario segreto, letto da una voce fuori campo, il film incrocia le storie di alcuni nuclei familiari, in un’apparente quotidianità banale e serena, dietro cui si nasconde l’insoddisfazione, il risentimento, con relazioni spesso anaffettive, con rabbie e tensioni che viaggiano sottotraccia, pronte ad esplodere in modo drammatico. In questo clima, le nuove generazioni di adolescenti e di bambini, simbolo del futuro, che provano ad adottare diverse tattiche per proteggersi dall’angoscia di quelle dinamiche relazionali, finiscono però per esserne agganciati e per fungere da detonatore all’esplosione del dramma.

A fare da cornice di quelle vicende è una Roma periferica, fotogenica nelle sue villette a schiera, se non anche nei suoi palazzoni, eppure profondamente priva di speranza. Il quartiere in cui vivono i protagonisti è quella Spinaceto, già citata al cinema da Nanni Moretti, in una famosa sequenza di “Caro Diario”, in cui Moretti smentiva la leggenda negativa, quella che voleva il nome di Spinaceto usato spesso, da molti romani, come sinonimo di quartiere brutto e deprimente. I D’Innocenzo, ribaltando Moretti, ne fanno nuovamente il quartiere asfissiante della leggenda, il palcoscenico di una storia nera, un luogo in cui la speranza, i rari sprazzi di bellezza, sono solo patina di superficie, che nasconde un buio profondo.

 

Nonostante sia passato ormai quasi un secolo dai fatti, ancora oggi a Roma il nome Girolimoni è sinonimo di pedofilo. Eppure Gino Girolimoni è la vittima di un clamoroso errore giudiziario, un errore presto riconosciuto da chi era incaricato delle indagini, a partire dal commissario Umberto Dosi, uno dei pochi a voler anche partecipare ai funerali dell’ex sospettato, nonostante il nome Girolimoni fosse a quel punto divenuto un marchio d’infamia. Più che di errore giudiziario, sarebbe però corretto dire che Girolimoni fu una delle prime vittime di un’aggressione mediatica, coi giornali dell’epoca che diedero ampio risalto al suo arresto, ma non scrissero una riga sulla sua successiva scarcerazione, quando venne dimostrata la sua estraneità ai fatti.


Sulla vicenda umana e giudiziaria di Girolimoni, Damiano Damiani girò un film nel 1972, chiamando Nino Manfredi a impersonare il protagonista. Fotografo e mediatore, Girolimoni venne arrestato con l’accusa di essere l’autore di cinque omicidi dii minorenni, avvenuti a Roma tra il 1924 e il 1927. Ebbe la sfortuna di capitare in un momento politico delicato, in cui il neonato regime fascista aveva bisogno di darsi l’immagine di rigido e infallibile garante dell’ordine. Perciò la stampa fu invitata a dare ampio risalto a quell’arresto e fu altrettanto caldamente invitata a tacere sulla scarcerazione, che avrebbe evidenziato come la giustizia mussoliniana non fosse in realtà sempre infallibile. Lo stesso commissario Dosi, convinto dell’innocenza di Girolimoni e intenzionato a smascherare il vero colpevole, fece le spese di quel clima, finendo internato in un manicomio. Solo dopo la caduta del fascismo venne reintegrato nella polizia, facendo una rapida carriera che lo portò anche a capo dell’Interpol.

Nel film di Damiani si ripercorre l’intero iter giudiziario e anche il velleitario tentativo di Girolimoni, prima di ottenere dai giornali una rettifica dopo la sua scarcerazione, poi di trovare il vero colpevole, infine di rifarsi una vita, cambiando anche il proprio nome, in una Roma che però lo considerò sempre il mostro, inchiodandolo fino alla morte, avvenuta in miseria nel 1961, a quell’ingiusto marchio d’infamia. Una Roma che nel film è raccontata attraverso le riprese dei veri luoghi che videro lo svolgimento dei fatti, da piazza Navona, a Palazzo Venezia; attraverso le immagini di alcuni luoghi romani capaci di ricreare le atmosfere della Capitale anni venti, come il Palazzo delle Esposizioni o l’Istituto Marymount di via Nomentana; infine attraverso gli scorci del centro storico di Albano Laziale, che nel film fungono spesso da vicoli della Roma di cent’anni or sono.

 

Tre napoletani a Roma: Totò, Peppino De Filippo e Giacomo Furia, improvvisati falsari un po’ cialtroni, che si ritrovano furtivamente in una tipografia capitolina per stampare banconote. Diretto da Camillo Mastrocinque nel 1956, è il film che rinsalda il binomio Totò e Peppino, destinato a riscuotere ancora numerosi successi cinematografici.


Tutto ha inizio quando il portiere condominiale Antonio Bonocore (Totò), raccoglie la confessione di un anziano in punto di morte, ex impiegato del Poligrafico dello Stato, che confessa di avere sottratto alla zecca i cliché autentici e la carta filogranata per stampare banconote da diecimila lire. Bonocore, entrato in possesso di quel materiale, sapendo di essere sul punto di venire licenziato dal suo lavoro, decide allora di rivolgersi ad altri due condomini, che ritiene più esperti nel settore: il tipografo Lo Turco (Peppino) e Cardone, un pittore di vetrine (Giacomo Furia). Con loro mette in piedi una banda per stampare e cercare di spacciare banconote false, banda che risulterà però talmente maldestra da finire ben presto smascherata.

Il film venne girato interamente a Roma, per la maggior parte in esterni. Il condominio in cui Totò è portiere, è un grande stabile di viale delle Milizie, in zona Prati-Trionfale. La tipografia di Lo Turco è invece in piazza degli Zingari, al Rione Monti. Altre scene sono girate nell’allora nuovissima stazione Cavour della metropolitana; in un bar di piazza della Suburra, sempre a Monti; al Quartiere Trieste; al Ponte dell’Industria; alla tabaccheria di via di Monte Savello, in centro, dove la banda prova a spacciare la prima banconota; in viale XXI Aprile, dov’è il comando della Guardia di Finanza in cui Totò va a costituirsi; a Villa Gordiani; lungo l’Appia Antica.

 

Esattamente sessant’anni prima di Giulio Andreotti – che interpretò se stesso nel film “Il Tassinaro” di Alberto Sordi – ci fu un altro primo ministro italiano ad apparire, nei propri panni, tra i protagonisti di una pellicola cinematografica. Si tratta del cavaliere Benito Mussolini, all’epoca abbastanza fresco di nomina, a nemmeno un anno dalla marcia su Roma che lo aveva portato al potere. Il film è la versione del 1923 di “The Eternal City”, remake e riadattamento di una precedente pellicola del 1915, a sua volta tratta da un’omonima opera teatrale di Hall Caine.


Il film del ’23 venne prodotto da Samuel Goldwyn, nome d’arte di Schmuel Gelbfisz, un ebreo polacco che, insieme alla sua troupe americana, diretta dal regista George Fitzmaurice e di cui faceva parte la bella attrice Barbara La Marr (una sorta di Marylin Monroe degli anni venti), venne accolto a braccia aperte dal futuro Duce: “Mussolini era così entusiasta del progetto che teneva il suo ufficio aperto per noi a qualsiasi ora”, disse in seguito Il cineoperatore Arthur Miller, ricordando come Mussolini offrì agli americani tutto ciò di cui avevano bisogno, dalle autorizzazioni per girare in esterni, anche in monumenti storici come il Colosseo, all’aiuto nel fornire attrezzature e comparse.

Le vicende narrate sono quelle di David Rossi e di una donna dal nome simbolicamente evocativo di Roma. I due si giurano amore, ma la vita li separa. David va a combattere nella Grande Guerra, Roma, invece, diventa una scultrice, grazie anche all’aiuto di un potente barone. Alla fine del conflitto, David si unisce ai fascisti e diventa amico di Mussolini. Tornato nella Capitale, scopre l’ambiguo rapporto tra Roma e il barone e, geloso, uccide quest’ultimo. Roma allora si accusa del delitto, per salvare David, dimostrando così di averlo sempre amato. David a quel punto decide di confessare la propria colpevolezza a Mussolini, che gli concederà la grazia, permettendogli così di coronare il suo sogno d’amore con Roma.

Pare che Mussolini abbia contribuito direttamente alla stesura finale della sceneggiatura, inserendo di suo pugno la propria parte, al posto di quella che nella storia originaria era assegnata al Papa, che nel film del 1915 risultava essere anche il padre segreto di David. L’ipotesi dell’intervento diretto mussoliniano è piuttosto verosimile, considerando sia la buona penna da giornalista di Mussolini, sia l’afflato filofascista che si avverte in tutta la pellicola, con le camicie nere paragonate a quelle rosse garibaldine, nel ruolo di salvatori della Patria.

 

Diretto nel 1943 da Mario Bonnard, con la coppia Aldo Fabrizi e Anna Magnani, che nello stesso anno saranno i protagonisti anche del film “L’ultima carrozzella”, un’altra opera che, come “Campo de’ Fiori”, farà un uso, per l’epoca quasi rivoluzionario, di scene girate, anziché in studio, nelle vere piazze e strade di Roma, oltre che di una recitazione spontanea, con forte accento dialettale e di personaggi che appartengono alle classi popolari. Tutti elementi che fanno già presagire la nascita dell’imminente cinema neorealista, che farà la sua comparsa poco più di un anno dopo con “Roma città aperta”, altra pellicola che avrà la stessa coppia di interpreti protagonisti.


La storia narrata è quella di Peppino (Aldo Fabrizi), un pescivendolo di Campo de’ Fiori, che si dà arie da rubacuori, amico di Elide (Anna Magnani), fruttivendola vicina di banco. Peppino è però innamorato di una bella donna della buona borghesia romana, che dopo averlo illuso, gli rivelerà di essere sposata, deludendolo, ma facendogli finalmente capire che il suo mondo è quello autentico e verace, incarnato proprio da Elide.

Con la partecipazione di Peppino De Filippo nelle vesti di un barbiere, anche in questo film, come nelle altre commedie cinematografiche girate quell’anno, la guerra pare essere del tutto assente, nonostante Roma e l’Italia stiano per entrare nel loro periodo più drammatico, con l’imminente sbarco in Sicilia degli alleati e la caduta del fascismo, a seguito del bombardamento di San Lorenzo, che è solo di poche settimane successivo alla fine delle riprese.

La vera protagonista del film, come si comprende già dal titolo, è dunque piazza di Campo de’ Fiori, non ancora diventata luogo della movida notturna capitolina, ma che, col suo vivace mercato, le grida dei venditori, le litigate coi clienti, le piccole furberie per raggranellare qualche lira in più, l’animo bonario mascherato da apparente menefreghismo, rappresenta appieno lo spirito popolare romanesco.

 

Gli effetti della legge Merlin su quattro prostitute romane, sfrattate dalle case di tolleranza e decise a riprendere il lavoro clandestinamente, sotto la copertura di un’apparentemente innocua trattoria, che vogliono prendere in gestione, ristrutturando un casale nella periferia romana. Diretto nel 1960 da Antonio Pietrangeli, con un cast internazionale che comprende Simone Signoret (Adua), Sandra Milo, Emanuelle Riva, Gina Rovere, Claudio Gora e Marcello Mastroianni, il film ebbe alla sua uscita un buon successo di pubblico, nonostante il tema per l’epoca scabroso.


Il progetto delle quattro donne incontra numerosi ostacoli. A causa del loro passato sono state infatti schedate come prostitute e il comune nega loro la licenza per l’apertura della trattoria. Adua decide allora di rivolgersi a un certo Ercoli (Claudio Gora), che fiuta l’affare e intercede per loro. L’accordo è che, nei primi mesi, le donne dovranno mantenere un comportamento irreprensibile, per non dare nell’occhio, per poi riprendere la vecchia attività e corrispondere a Ercoli, che avrebbe continuato a coprirle, la somma (per l’epoca stratosferica) di un milione di lire al mese. Le donne però, cominciano a poco a poco ad apprezzare la possibilità di uscire dal giro della prostituzione e di dedicarsi definitivamente alla vita “onesta” della trattoria, scatenando così le ire di Ercoli, che causeranno nuovi cambiamenti e nuovi problemi.

Dalla centralissima Salita del Grillo, dove è ubicata nel film l’originaria casa di tolleranza delle donne, la Roma descritta da Pietrangeli è anche quella un po’ più periferica. Il casale da trasformare in trattoria è sull’Appia Pignatelli, non distante dal Mausoleo di Cecilia Metella. La casa in cui abita Mastroianni, che farà amicizia con Adua, è in via Marco Polo, in zona Ostiense. Altre scene sono girate al Pinciano, a via Meropia, nei pressi delle Fosse Ardeatine, all’ex Cinodromo di Ponte Marconi, oltre che nelle più centrali piazza del Popolo, via Veneto, piazza di Trevi, via del Porto di Ripa Grande.

 

Ventiquattresimo film dell’intramontabile saga di 007, realizzato nel 2015 da Sam Mendes, con Daniel Craig nel ruolo di James Bond, la spia inventata dalla penna di Ian Fleming e portata al primo successo cinematografico da Sean Connery, “Spectre” catapulta l’agente segreto più famoso del mondo nella Città Eterna. L’arrivo a Roma è giustificato dalla volontà di presenziare ai funerali di Marco Sciarra, un capo criminale che lui stesso aveva inseguito a Città del Messico per ucciderlo e con la vedova del quale, interpretata da Monica Bellucci, egli avrà un inevitabile flirt.


Dopo complesse peripezie, che porteranno Bond in giro per il mondo, da Londra, a Città del Capo, a Tangeri, al deserto africano, a un rifugio tra le nevi delle Alpi, il bene come sempre riuscirà a trionfare e il male verrà sconfitto – anche se non del tutto, per poter lasciare spazio agli ulteriori film della saga – con l’ovvio happy end, che porterà l’agente segreto a festeggiare con l’immancabile “Bond girl” d’ordinanza, che in questo film ha il volto della francese Léa Seydoux.

All’epoca della realizzazione del film, diverse arre di Roma rimasero interdette al transito per giorni, creando una sorta di effetto attesa tra i romani, per l’uscita sugli schermi di una pellicola che aveva sconvolto il traffico della città per intere settimane. Sono infatti numerosi i luoghi della Capitale che appaiono in “Spectre”, non solo all’interno del centro storico della città. C’è il Museo della Civiltà Romana, all’Eur, che nel film è presentato come cimitero. C’è la Villa di Fiorano, sull’Appia Antica, elegante dimora della vedova Sciarra. Ci sono poi i forsennati inseguimenti, che Bond effettua a bordo della sua Aston Martin, attraversando Trastevere, il Gianicolo, via Nomentana, il Lungotevere, piazza Navona, Ponte Milvio, la Fontana di Trevi, via della Conciliazione, in una sorta di adrenalinico giro turistico, ad oltre trecento chilometri orari.

 

Il curioso eroe di questa pellicola del 1955, diretta da Mario Monicelli, è Alberto Menichetti, ovvero Alberto Sordi, un uomo timido e complessato, che vive ancora in casa con le vecchie zie ed è ossessionato dal timore di mettersi nei pasticci, finendoci, paradossalmente, proprio a causa delle sue paure. Del cast fanno parte anche Franca Valeri, nella parte della vedova De Ritis, segretamente interessata ad Alberto, Giovanna Ralli, una bella parrucchiera a cui lui non ha il coraggio di fare la corte, Ma

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