Sabato 2 Gennaio 2021 10:01
Assassinio a Villa Borghese, un giallo di Walter Veltroni
“Il Parco dei Daini è un’enclave nell’incantevole sistema di Villa Borghese. Il più bel parco del mondo, con la sua
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Walter Veltroni
Che sia un luogo straordinariamente magico, la Villa suburbana fatta costruire dal cardinale Scipione Borghese all’inizio del ‘600 e poi restaurata e arricchita alla fine del Settecento e agli inizi dell’Ottocento dai suoi lontani eredi Marcantonio e Camillo Borghese, credo non esista al mondo persona (che abbia avuto la fortuna di visitarla oppure ne abbia sentito soltanto parlare) che ardisca mettere minimamente in dubbio. Che, nel corso del tempo, essa sia stata oggetto di ammirazione e di ispirazione per insigni artisti, letterati, cineasti, botanici o per semplici cittadini di differenti condizioni sociali e formazioni culturali ma tutti egualmente amanti del bello, anche su questo non è il caso di discutere, essendo innumerevoli le testimonianze che è possibile chiamare a suffragio dell’assioma sopra enunciato.
Che, per giungere ai giorni nostri, essa possa avere creato suggestioni indelebili nell’animo di Walter Veltroni, ex Sindaco di Roma (nonché, da qualche anno, apprezzato e promettente scrittore e cineasta), ne avevamo avuto la certezza, qualche tempo fa, dalla lettura del suo romanzo d’intonazione autobiografico-familiare Ciao (Rizzoli 2015), dedicato alla memoria del padre Vittorio, prematuramente scomparso nel 1956. Che, però, nella fantasia dello stesso Veltroni, la Villa delle Meraviglie potesse trasformarsi, addirittura, in un luogo di paura e di orrore suscitati da abominevoli delitti commessi nel suo vastissimo parco e all’interno stesso del Casino Nobile del cardinal Scipione – delitti sui quali è chiamato ad indagare uno strano e quasi inverosimile personaggio quale il commissario Buonvino, partorito dalla medesima fantasia sulla scorta e ad imitazione di altri celebri investigatori e commissari letterari di più lunga e sperimentata carriera (Maigret, Montalbano, Pepe Carvalho, Marlowe, ecc.) -, questo non potevamo, francamente, aspettarcelo.
Il romanzo Assassinio a Villa Borghese (Marsilio editori, Venezia 2019) infatti, dal punto di vista tecnico (vale a dire, per quanto riguarda il genere letterario) si può definire un “giallo” o, per essere precisi, un “horror”, a causa del tipo di delitti che caratterizzano l’intricata e tenebrosa vicenda in esso narrata. In effetti una cosa è uccidere con un’arma qualsiasi (un coltello, una pistola, il veleno, un finto incidente, ecc.) una persona e poi abbandonarne il cadavere sulla strada o in una stanza o in qualsivoglia altro posto al mondo; un’altra, invece, è infierire sulla povera salma decapitandola e/o smembrandola pezzo a pezzo. E’ chiaro che nel primo caso siamo in presenza di un assassino “normale” (se tale può essere definito un omicida); nel secondo, al contrario, siamo alle prese con un individuo psicologicamente tarato, qualcuno che, evidentemente, non uccide né per un impulso irrazionale momentaneo né per ottenere un qualche vantaggio materiale, bensì per procurarsi un godimento (un malvagio godimento) che non può essere consumato soltanto nell’attimo della morte della vittima, ma va prolungato il più possibile attraverso atti di autentica barbarie nei confronti del cadavere. Ma chi uccide per ottenere un prolungato godimento è, tendenzialmente, un “serial killer”, cioè una persona che non può fare a meno di reiterare ad libitum il delitto.
In Assassinio a Villa Borghese, dunque, l’eroe positivo, il timido e un po’ “sfigato” commissario Buonvino, ha a che fare con un vero e proprio serial killer e deve risolvere, in un tempo relativamente breve, un caso che suscita il raccapriccio dell’opinione pubblica la quale, ovviamente, esige che le forze dell’ordine scoprano il responsabile (o i responsabili) degli inauditi fatti di sangue. Di conseguenza, il povero investigatore si ritrova, di punto in bianco, sotto i riflettori della stampa e dei social media che non perdono occasione per mettere in evidenza le manchevolezze e le inadeguatezze di un’indagine apparentemente priva di risultati. Se, poi, alle personali debolezze del commissario, si aggiungono anche quelle della squadra di poliziotti a lui affidata (una sorta di tragicomica Armata Brancaleone, formata da un certo numero, ben sette, di “scarti” provenienti da altri commissariati o uffici e tutti più o meno portatori di qualche “handicap” di cui vergognarsi), l’indagine si preannuncia non solo complicata, ma addirittura disperata. Ma, poiché il racconto risulta – al lettore che abbia una qualche dimestichezza con il giallo variante horror – ricco di colpi di scena e in buona sostanza rispettoso delle regole e dei canoni non scritti che sostengono e danno sapore a qualsiasi buon prodotto del medesimo genere, ritengo opportuno non scendere nei dettagli e negli sviluppi della narrazione, proprio per non togliere ai miei immaginari lettori del libro di Veltroni il gusto e la sorpresa della rivelazione finale, vale a dire la scoperta del colpevole. Tuttavia un piccolo suggerimento, se mi è consentito dalle norme, anch’esse non scritte, dell’arte della recensione, mi permetto di lanciarlo (una sorta di piccola pulce nell’orecchio): caro lettore, fai bene attenzione agli aspetti, per così dire, “spirituali” che l’autore, quasi involontariamente, ha disseminato nel testo; forse sta lì, in quegli ambiti, la chiave per giungere, con un qualche anticipo, alla risoluzione del mistero.
Se, in quanto esemplare del genere giallo, il libro dell’ex Sindaco di Roma, accattivante e intrigante quanto basta per farsi leggere tutto d’un fiato (come è successo al sottoscritto), è un prodotto ben confezionato e riuscito, vi sono altri contenuti che sicuramente attireranno la curiosità del lettore. Innanzitutto il fatto che il testo, tra le righe e a latere della vicenda narrata, sia anche una sorta di piccola guida ai numerosi tesori del complesso di Villa Borghese, tanto da essere corredato, nel risvolto di copertina, da una istruttiva pianta topografica che, in sequenza numerata, evidenzia tutti i luoghi importanti e visitabili della stessa villa, a partire dalla Galleria Borghese al Parco dei Daini, dai Giardini segreti alla Casina di Raffaello, dalla Casa del cinema al Tempio di Esculapio, dal Museo Bilotti al Globe Theatre, ecc. In secondo luogo i moltissimi riferimenti culturali che arricchiscono il testo: storici, religiosi, filosofici, teatrali, cinematografici, giuridici, ecc. Tra quelli cinematografici uno l’ho trovato quasi commovente: quello costituito dall’omaggio ad un grande del cinema italiano come lo scomparso Ettore Scola, del quale è notissimo il solido legame di amicizia con Veltroni. Un omaggio concretizzato nell’avere l’autore ambientato alcuni episodi del racconto nel famoso ristorante “Il re della mezza porzione” che, nel film capolavoro di Scola C’eravamo tanto amati (1975), è uno dei luoghi fondamentali che fanno da sfondo alle tormentate storie dei tre amici, reduci della Resistenza, interpretati da Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Stefano Satta Flores. Il ristorante è ancora funzionante ma non si trova affatto nell’area di Villa Borghese, anzi ne è abbastanza lontano, visto che è in via dei Fienili, nei pressi della chiesa della Consolazione (retrostante a piazza del Campidoglio). Questa piccola deviazione, – motivata da ragioni di carattere sentimentale – risulta essere l’unica di un racconto che si svolge quasi interamente nell’area del parco di Villa Borghese, per l’occasione diventata teatro dell’orrore e del mistero.
Francesco Sirleto